COS'è LA TERAPIA DELLA GESTALT
La Terapia della Gestalt, che inizialmente era stata chiamata della Concentrazione o Esistenziale, utilizza un termine tedesco che significa struttura-forma e che tradizionalmente si riferisce al concetto insiemistico della omonima psicologia della percezione che mette in evidenza l’attitudine dello psichismo a cogliere quell’insieme che dà senso e quindi supera la semplice sommatoria degli elementi costitutivi.
Questo concetto venne originariamente introdotto da Christian von Ehrenfels (1858-1932) e sviluppato a partire dagli anni ’30 da un gruppo di ricercatori della scuola di Francoforte che si occupavano della psicologia della percezione. Gli stessi misero in evidenza, appunto, come l’atto percettivo, in particolare quello visivo cui elettivamente dedicarono le iniziali ricerche, rappresenta un’operazione assai complessa che non poteva ricondursi alla semplice sommatoria dei singoli dati sensoriali acquisiti, ma evidenziava al contrario una attitudine ad organizzare la miriade delle sensazioni elementari in figure emergenti da uno sfondo che, per vari motivi, risultano per il soggetto particolarmente pregnanti e cariche di energia in un dato momento.
Mentre l’attenzione degli psicologi della Forma si era rivolta alle caratteristiche delle funzioni percettive, fu merito di Friederick Salomon Perls innestare questi contributi sul terreno della teoria e della pratica psicoanalitica e di un’impostazione fenomenologico-esistenziale, unitamente ad altri contributi teorici, come la Teoria del Campo di K. Lewin, l’Autoregolazine Organismica di K. Goldstein, il pensiero differenziale di S. Friedlander, e la Semantica Generale di A. Korzybsky e metodologici, come lo Psicodramma, la Sensory Awareness.
Da questa sintesi scaturì un orientamento teorico-applicativo nel campo della psicologia e delle scienze umane di assoluta originalità.
Sviluppatasi negli Stati Uniti a partire dagli anni ’50, questa scuola rappresenta attualmente uno degli indirizzi più suggestivi ed innovativi nel vasto panorama degli orientamenti nella psicoterapia e nelle scienze umane.
Un orientamento che suscita crescente interesse anche in Europa e che ha contagiato innumerevoli persone anche nel nostro Paese dove è stato introdotto originariamente da Natascia Mann e Barrie Simmons e dove vanno organizzandosi iniziative più strutturate di applicazione clinica e di attività formativa.
Ma veniamo al percorso che ha caratterizzato questa interessante reazione di sintesi. Riprendendo David Gorton, (1982) «una non sufficientemente fondata conoscenza dei presupposti teorici della Terapia della Gestalt rende la comprensione della stessa, per come si presenta allo stato attuale, assai difficile se non impossibile».
E’ dato d’altronde constatare anche per altri movimenti di rinnovamento come l’elaborazione concettuale abbia seguito una prima fase maggiormente improntata all’intuizione ed alla messa in opera di pratiche innovative nel concreto.
Se questo discorso può avere una validità in generale, lo ha in modo del tutto particolare in una impostazione che si riconosce come intrinsecamente fondata sull’esperienza e su un’attitudine di presa di contatto quanto più diretta con i dati di realtà.
Per introdurre gli elementi che compongono la costruzione teorica della terapia della Gestalt preferisco far precedere alcune note sulla vita di Perls stesso che, nell’evoluzione umana ed intellettuale della sua persona, integrò tali elementi costitutivi in una esistenza vissuta con intensità e coerenza agli stessi principi ispiratori.
Fritz Perls e la nascita della Terapia della Gestalt
Nel 1926, psichiatra assai poco realizzato professionalmente e uomo di 33 anni, decide di iniziare una analisi personale. L’incontro con Karen Horney è per lui una rivelazione, decide che la psicoanalisi è il suo futuro.
Trasferitosi a Francorte, diventa assistente di Kurt Goldstein che, a partire dagli studi sulla Psicologia della Gestalt, lavora sui disturbi della percezione su traumatizzati cranici.
Nello stesso ambiente conosce Lora Polsner, che tre anni più tardi sarà sua moglie. Riprende la sua analisi con Clara Happel che, dopo solo un anno, considera terapia e formazione concluse.
Dopo un breve periodo a Vienna, dove si avvale della supervisione di Helen Deutch mentre frequenta l’ospedale psichiatrico in qualità di assistente, ritorna a Berlino dove riprende l’analisi con Eugene Harnick che a sua volta si era formato con Ferenczi.
Su indicazione della Horney, nel 1930, Perls si rivolge successivamente a W. Reich che, in quel periodo, sta lavorando alla Analisi di carattere. L’incontro con questa figura di analista attivo, aperto a problematiche sociali, che non esita a mettere le mani sui suoi pazienti per favorirne la presa di contatto con i blocchi della corazza muscolare, rappresenterà un fattore di fondamentale importanza nella successiva evoluzione della formazione di Perls.
La sua professione è ben avviata ma il sopravvento del nazismo lo costringe a fuggire in Olanda. Qui tuttavia, non gli viene concesso di esercitare per cui, su consiglio di Ernest Jones, decide di recarsi in Sud Africa.
Siamo nel 1934 quando Perls, insediatosi a Johannesburg, fonda l’Istituto Sudafricano di Psicoanalisi. Elabora nel frattempo alcuni contributi originali sul tema delle «resistenze orali» che si aspetta vengano accolte positivamente al congresso internazionale di Psicoanalisi che si va preparando a Praga nel 1936.
La comunicazione di Perls, che successivamente verrà ampliata e pubblicata col titolo “Ego, Hunger and Aggression” contiene già molti elementi che rivelano l’evoluzione di Perls al di fuori delle concezioni classiche della psicoanalisi.
Vi si approfondisce l’importanza dell’oralità e delle modalità di assunzione di cibo del bambino, quale primo modello delle future relazioni con l’ambiente. La fame, come espressione dell’istinto di conservazione dell’individuo, viene considerata in parallelo e non quale forma precoce e subordinata della sessualità (sadismo orale per Abraham) che esprime al contrario l’istinto di conservazione della specie.
Vengono inoltre anticipati alcuni temi che troveranno successivamente più ampio sviluppo, quali: l’importanza del tempo presente nei confronti della focalizzazione archeologica sul passato; l’attenzione per il corpo e per il suo linguaggio; un’attitudine per la sintesi più che per l’analisi; la messa in discussione della nevrosi di transfert come forma di evitamento di un contatto più diretto tra paziente e analista al di là dei fantasmi proiettivi; una revisione sui meccanismi di difesa; l’utilizzazione della prima persona al singolare come forma di appropriazione delle proprie sensazioni e sentimenti nella relazione dia-logica Io-Tu che tiene conto della elaborazione filosofica di Martin Buber.
Vi compare inoltre una visione olistica dell’individuo all’interno del proprio ambiente come risutato dell’incontro con J. Smuts autore di “Holism and Evolution”; nell’utima parte del lavoro intitolata “Concentrazione terapeutica” egli propone un primo approccio terapeutico con esercizi che stimolano l’attenzione del lettore sul silenzio interiore, sull’importanza del presente, sulla concentrazione sul vissuto corporeo.
Ce ne era abbastanza per considerare Perls come già di fatto fuori dalla psicoanalisi. Una posizione che Perls fu esplicitamente invitato ad assumere, per tramite di Marie Bonaparte, e che tuttavia rifiutò di accettare.
Terminata la guerra, Perts si trasferisce a New York. Tra i primi collaboratori troviamo Isadore Fromm, Paul Weisz (che lo inizierà allo Zen), Elliot Shapiro, Sylvester Eastman che, con Paul Goodmann, Ralf Hefferline e Laura formano il cosiddetto gruppo dei sette. Nel 1951 viene pubblicato “La terapia della Gestalt: eccitamento e crescita nella personalità umana” a firma di Perls, Hefferline e Goodman, testo base di riferimento sia a livello teorico (vi compare un capitolo sulla teoria del Sé) che metodologico.
Tra il ‘52 e il ‘54 fonda i primi istituti di Gestalt che lascia tuttavia alla moglie e collega Laura e a P. Goodmann mentre si dà a continui viaggi per presentare il nuovo metodo di lavoro attraverso dimostrazioni e conferenze.
La attività didattica si integra nel frattempo con una inesausta attitudine ad imparare esponendosi a sempre nuovi stimoli. Frequenta per diciotto mesi dei corsi regolari di Sensory Awareness con Charlotte Selver, pratica lo Psicodramma con Moreno salvo prediligere in particolare la tecnica del monodramma (lavoro di drammatizazione sulle polaroità e identificazione con le parti del sé).
La nuova pratica psicoterapica non si è ancora evoluta nella sua forma definitiva. Non esiste infatti la hot seat(sedia vuota) e lo stile di lavoro utilizza ancora molto la comunicazione verbale. Si sviluppa ulteriormente l’attitudine a lavorare sul vissuto del qui ed ora, a ricercare un contatto più diretto ed autentico tra paziente e terapeuta che non si riconduce unicamente al paradigma transferale, mentre si va introducendo un modo più attivo e drammatizzato di lavoro sui sogni che si configurerà più tardi nella interazione tra le componenti della rappresentazione onirica impersonate alternativamente dal sognatore.
Questa inesausta tensione ad integrare elementi teorici ed applicativi di diversa estrazione sarà all’origine di una crescente divaricazione tra Perls (e la scuola cosiddetta californiana che successivamente si andrà sviluppando) e gli Istituti della East Coast (New York e Cleveland) dove a Laura e Goodmann si sono affiancati nel frattempo Joseph Zinker, Erving e Miriam Polster ed Isadore Fromm che si attengono ad una metodologia di lavoro più ancorata agli schemi classici della interazione verbale.
Nel 1956 Perls decide di ritirarsi, ormai lontano dalla vita attiva, in Florida.
Tra il ’59 e il ’60 riprenderà le sue peregrinazioni recandosi più volte in California su invito di Van Dusen, un fenomenologo esistenziale che sa cogliere nell’approccio gestaltico lo spessore teoretico che molti non sanno intravedere al di là delle tecniche di intervento. Nel 1960 lascia Mendocino, dove lavora presso l’ospedale psichiatrico, per recarsi a Los Angeles dove rincontra J. Simkin, uno tra i suoi primi clienti che, ora amico e poi fondatore di un Istituto di Gestalt, lo aiuterà a fondare un nuovo gruppo di studi ed a ricostituirsi una clientela.
Perls, a più di 70 anni, accetta infine l’invito a dare alcune conferenze e dimostrazioni ad Esalen, un Centro di crescita sulla costa californiana che sta trasformandosi da luogo di incontro fra gente di diversa estrazione culturale alla ricerca piuttosto confusa di nuovi modelli di vita e di conoscenza in un autorevole fucina di sperimentazione e di propulsione culturale attraverso il contributo di personaggi di rilievo quali Aldous Huxley, Alan Watts, Abraham Maslow, Bill Shulz, Paul Tillich etc. In questo splendido posto tra rocce, oceano e acque termali Perls accetterà un contratto come residente per avviare un corso di formazione nella Gestalt.
Alla presenza di centinaia di partecipanti, Perls invita chi vuole ad accomodarsi sulla “sedia che scotta” per dar luogo alle sue dimostrazioni cui sono ormai attirati professionisti di fama per apprendere i segreti di un’arte consumata e sempre inventiva nel cogliere l’elemento evolutivo inceppato di un’esistenza interrotta nel suo libero fluire, nella sua crescita. Si tratta di persone magari in analisi da anni e che entrano in contatto repentinamente con un modello autosostenuto di difesa paralizzante e che l’atto della consapevolezza, sviluppatosi con l’aiuto del terapeuta a partire da particolari apparentemente insignificanti, consente a volte inaspettatamente di superare.
Non si tratta ovviamente di percorsi psicoterapici, ma di tocchi magistrali che danno tuttavia il senso del potenziale raggiunto da quest’uomo a compimento della sua opera di sintesi e di inesausta ricerca.
Le sessioni di Perls vengono registrate, filmate ed in parte raccolte in un volume che uscirà con il titolo Gestalt Therapy Verbatim (1969).
Contemporaneamente si dedica alla raccolta di dati ed esperienze personali con un taglio autobiografico cui da il titolo inconsueto di In and out the Garbage Pail (Dentro e fuori dal secchio della spazzatura) (1969).
Una nuova generazione di più stretti collaboratori, tra cui Claudio Naranjo, Bob Hall, Jack Dawning e Isha Blumberg, raccoglievano l’eredità della più compiuta espresione della sintesi di Perls mentre, con il contributo di Jim Simkin, venivano organizzati programmi di formazione secondo l’impostazione della scuola californiana.
Nel giugno del 1969 Perls si trasferisce con una trentina di collaboratori in un vecchio albergo nell’isola di Vancouver, nel Canada occidentale, sulle rive del lago Cowichan con l’intento di crearvi una comunità terapeutica ispirata al kibbutz e ai principi della Gestalt.
“L’eredità di Fritz è completa. – dirà nelle sue conclusioni P. Baumgardner (1975, 79) che dell’ultimo periodio di Perls fu testimone privilegiata – Fritz ha sviluppato una trama concettuale all’interno di una metodologia clinica ben definita”.
L’anno seguente, di ritorno da un viaggio in Europa, si ferma a Chicago dove è atteso per un seminario. Vi morirà il 14 marzo a seguito di un infarto di cuore all’età di 77 anni.
Il nuovo approccio, dopo anni di lenta incubazione, si diffonde con forza inaspettata tanto da far registrare la nascita di ben 37 istituti tra il 72 e il 76. Nel 1982 il Gestalt Directory annovera più di 60 istituti di formazione. Anche in Europa la terapia della Gestalt inizia a diffondersi grazie ad iniziative di sensibilizzazione di terapeuti statunitensi e all’avvio di iniziative da parte di colleghi europei che si sono formati negli USA. Nel ‘72 Hilarion Petzoldt fonda il Fritz Perls Institute a Dusseldorf mentre Serge Ginger fonda la Scuola Parigina di Gestalt.
Nel nostro Paese, dove è stato introdotto originariamente da Natascia Mann e Barrie Simmons, si sono progressivamente sviluppate iniziative di applicazione clinica e di attività formativa. Allo stato attuale esistono in Italia una decina di istituti di formazione la cui maggioranza si riconosce nella Federazione Italiana delle Scuole ed Istituti di Gestalt-FISIG che si è costituita nel 1991 con l’intento di garantire standard didattici adeguati e nel rispetto dei parametri indicati dalla Associazione Europea di Gestalt Terapia-EAGT.
Allo stato attuale la Terapia della Gestalt, oltre a far registrare la propria presenza in tutti i continenti attraverso ben consolidate iniziative di formazione, viene abitualmente contemplata tra gli indirizzi maggiormente censiti nelle pubblicazioni sinottiche sui diversi orientamenti nella psicoterapia ed ha ricevuto il riconoscimento, attraverso alcune scuole di formazione, da parte della Commissione istituita presso il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica ai sensi della legge n.56/89 sulla psicoterapia.
I modelli teorici di riferimento della terapia della Gestalt
Lo spazio riservato a delineare la figura di Perls non rappresenta solo l’omaggio dovuto al maestro, quanto un modo che ho ritenuto efficace per introdurre alcuni aspetti che sono in qualche modo intrinseci alla dimensione della Gestalt ed ai suoi aspetti costitutivi che ora cercheremo di prendere in considerazione.
Abbiamo visto come la Gestalt, come approccio alla psicoterapia nonchè come stile di vita, è andato sviluppandosi essenzialmente grazie alla incomparabile opera di integrazione operata da Perls, in buona parte grazie a sue acute intuizioni. Significativi apporti vanno riconosciuti in particolare a Laura Perls e a Paul Goodmann al quale J. M Robine, tra gli altri, riconosce il merito di aver dato alla Gestalt una teorizzazione coerente.
Ma veniamo tuttavia anche agli elementi che compongono una costruzione di cui troppo spesso si sottovalutano i significativi apporti teorici.
LA PSICOANALISI
La Gestalt è figlia della psicoanalisi anche se, forse proprio per questa discendenza in linea diretta le distanze della ideologia-madre e del padre-Freud appaiono così vistose tanto da apparire talvolta ostentatamente sottolineate (vedi Appelbaum, 1976, Gorton, 1982, Delacroix, 1982, Ginger, 1987).
Sorvolando su aspetti già menzionati e riprendendone altri in cui Perls si discosta dalle teorie psicoanalitiche, possiamo richiamare in sintesi i seguenti punti:
– disconoscimento del primato della libido come realtà pulsionale primaria, seppur esprimentesi in fasi diverse, in favore di una molteplicità di bisogni che emergono con intensità diversa in funzione del livello di crescita dell’individuo e delle situazioni ambientali attivatrici o inibitorie. Di tali cariche energetiche, alla base dell’istinto di sopravvivenza dell’individuo (bisogni) e della specie (desideri), Perls ha approfondito nella sua opera Ego, Hunger and Aggression (cui aggiunge successivamente il sottotitolo di Revisione della teoria di Freud) in particolare la componente dell’oralità, la incorporazione di cibo come schema di futuri modelli di relazione con l’ambiente;
– il privilegio della dimensione del presente rispetto al passato nell’indagine critica e nel lavoro terapico;
– il superamento della dicotomia Es-SuperIo in vista di una concezione olistica non strutturalmente contrappositiva tra domande dell’individuo e risorse potenziali dell’ambiente allorchè meccanismi di autolimitazione non interferiscano vistosamente sulle capacità dell’individuo di divenire consapevole dei suoi bisogni (reali e non sovraimposti) e della spinta a soddisfarli.
Tale possibilità (coerentemente ad una visione meno pessimistica di quella freudiana, e che forse risente di uno slancio fin troppo ottimistico del clima culturale californiano degli anni ’60) viene ovviamente ostacolata da situazioni di nevrosi collettiva in cui l’individuo non si sviluppa in una dimensione che lo aiuta a identificare e soddisfare i suoi elementari ed autentici bisogni, perseguitato com’è dai miti del potere, dell’ambizione del possesso, e, in ultima analisi, da un’immagine di sè falsamente idealizzata che gli impedisce di confrontarsi con la sua più autentica e realistica natura;
– privilegio per il graduale sviluppo della consapevolezza (awareness) come premessa alla capacità di autoregolazione dell’organismo rispetto al concetto psicoanalitico di insight come evento chiarificatore tra contenuti inconsci e sfera cosciente ad opera di una interpretazione riuscita ed in assenza di resistenze da parte dell’analizzato;
– deenfatizzazione del concetto di inconscio come realtà psichica a se stante dotata di leggi e modalità organizzative interne. Inconscio è per Perls tutto ciò di cui di fatto in questo momento non sono consapevole ed a cui, grazie ad una operazione di appropriazione consapevole (eventualmente ma non necessariamente mediata dal terapeuta) posso accedere. Tale operazione, elementare e fluida per contenuti di coscienza non scissi ed alienati, può comportare l’emergenza di sentimenti di angoscia di varia intensità allorchè l’individuo si identifica con una parte dei propri contenuti di coscienza negando l’esistenza di parti di sè per vari motivi inaccettabili.
Anzichè interpretare detti contenuti scissi che possono esprimersi attraverso il sogno, sintomi di conversione somatica, incongruenze mimico-gestuali, comportamenti di cui il soggetto si sente agito o fenomeni dispercettivi di vario tipo, la Gestalt propone un percorso esperienziale di graduale ri-appropriazione teso alla integrazione delle parti scisse;
– valorizzazione degli aspetti di realtà, oltre che del come se relativamente alla relazione paziente-analista. L’interpretazione delle relazioni unicamente in chiave di lettura transferale rappresenta spesso una difesa da parte del terapeuta che evita il dato di fatto di essere presente come persona in toto con i propri vissuti, limiti, sentimenti, vuoti etc. All’interno di una concezione olistica vale quindi la qualità dell’interazione tra due soggettività e non l’atteggiamento per il quale il terapeuta si presenta come entità inaccessibile, osservatore neutrale e l’analizzato come oggetto di osservazione. In altre parole si esiste nel presente e nella gamma delle possibili interazioni anche al di là dei fantasmi proiettivi che ci riconducono alle fissazioni dell’infanzia;
– alla ricerca esplicativa delle cause all’origine di un modo insoddisfacente di declinarsi nel mondo, viene privilegiato l’attenzione sul come detta disfunzione si esprima in concreto nel fluire delle situazioni e delle occasioni più o meno mancate di consapevolezza e di contatto.
Le divergenze della Gestalt da alcuni principi della Psicoanalisi freudiana vanno tuttavia integrati, seppure con un veloce riferimento, con alcuni importanti sviluppi che dal ceppo originario della Psicoanalisi sono derivati.
Utilizzando una sintesi operata dai Ginger (S. e A. Ginger 1987) tali accostamenti possono ravvisarsi con:
– C. G. Jung per quanto concerne il significato più ampio attribuito al concetto di libido, il discorso sulle polarità in rapporto dinamico, il lavoro sulla immaginazione attiva, il confronto faccia a faccia, il significato evolutivo attribuito al sintomo, il valore del linguaggio simbolico non limitato alla storia personale dell’individuo;
– A. Adler per l’accostamento del processo terapeutico a quello educativo inteso come stimolo alla ricerca di strumenti di autosostegno, di responsabilizzazione e di affermazione personale;
– S. Ferenczi per il tentativo di superare un interazione vincolata unicamente alla comunicazione verbale attraverso l’introduzione di esercizi sul radicamento (grounding) e di contatto con il paziente sotto forma di esperienze riparatrici;
– M. Klein per l’importanza riconosciuta alle pulsioni orali, alla introduzione di forme di gioco e di interazione simbolica e non verbale, per l’attenzione sulle risposte emotive del terapeuta, l’evidenziamento dei meccanismi di interazione tra oggetti interni e parti scisse;
– O. Rank per l’enfasi sulla scarica emozionale evocata dall’emergenza di vissuti infantili precoci;
– K. Horney per l’importanza riconosciuta alle interazioni con l’ambiente, ai «benefici secondari» che il comportamento nevrotico consente nel presente di ottenere al di là delle cause passate che lo hanno innescato; al bisogno primordiale di rassicurazione e di approvazione che, proprio per la sua drammatica insistenza nella dimensione umana, va inizialmente soddisfatto attraverso un clima di rapporto caloroso ed accettante come premessa all’assunzione di rischio collegata all’esplorazione di modalità di comportamento più adulto;
– W. Reich per l’attenzione ai fenomeni di collettivizzazione delle strutture nevrotiche, alla formazione della corazza caratteriale esprimentesi sotto forma di contratture muscolari croniche, come difesa dalle emozioni e come blocco di un più naturale fluire di energie. Di qui la valorizzazione per il corpo, per il suo linguaggio come occasione di accesso alle esigenze primarie dell’essere umano spesso incongruente con il linguaggio verbale, espressione di rappresentazioni autoimposte, di modelli relazionali adottati in modo stereotipo ed eteronomo;
– D. Winnicott per l’accoglimento di possibilità di contatto e di contenimento, come la tecnica dello holding applicata originariamente nel lavoro con bambini, nonchè per l’approfondimento sugli «oggetti transizionali» (coperta, orsacchiotto o altro) come elementi di realtà investite di forti componenti proiettive e che nel lavoro gestaltico vengono spesso utilizzati per favorire l’interazione agita con personaggi presentificati. Tale dimensione viene estesa allo stesso spazio terapeutico, inteso come spazio caratterizzato da elementi di realtà e fantasmatici e quindi come spazio transizionale.
I riferimenti potrebbero estendersi ad altre correnti di pensiero, come quello della Psicologia Umanistica (in particolare R. May e A. Maslow per quanto riguarda la gerarchia dei bisogni e lo sviluppo del potenziale umano, C. Rogers per quanto ricorda la focalizzazione sul cliente e l’attitudine non invasiva del lavoro terapeutico), della scuola culturalista (E. Fromm per l’analisi delle società capitaliste, H. S. Sullivan per i contributi sulla dimensione intersoggettiva della relazione terapeutica) del personalismo di Gabriel Marcel e dei contributi di M. Buber sulla intrinseca realtà dia-logica dell’esistenza umana, solo per menzionare i più evidenti.
LA PSICOLOGIA DELLA FORMA
Perls viene in contatto con la Psicologia della Forma nel ‘26 allorchè lavora come assistente di Kurt Goldstein. Capo scuola è Wertheimer che, a partire dal 1912, si oppone, attraverso ricerche sulla organizzazione dei dati sensoriali in insiemi significativi, alle precedenti scuole dell’elementarismo, del sensazionismo e dell’associazionismo. Le ricerche privilegiano originariamente le percezioni visive arrivando ad identificare già nel 1933 ben 114 leggi che le concernono.
Va rilevato inoltre come gli psicologi della Gestalt che esercitarono la maggiore influenza su Perls non appartennero al nucleo più rappresentativo della stessa scuola e furono in particolare Edgard Rubin (essenzialmente un fenomenologo) Kurt Goldstein (che viene considerato un antecedente della scuola stessa) e Kurt Lewin (che dalla stessa scuola si differenziò fino ad essere considerato un autore indipendente) (da Gimeno e Rosal, 1983, Henle, 1978, Smith, 1976).
La profonda adesione di Perls a questa concezione si esprime anche nella dedica fatta a Wertheimer della sua pubblicazione Ego, Hunger and Aggression che considera «il passo dalla psicoanalisi ortodossa alla visione gestaltica». L’idea che l’aveva colpito di più era stata «l’idea della situazione inconclusa, la gestalt incompiuta».
Perls si riferiva ad alcuni interessanti esperimenti comprovanti come figure mancanti di tratti di delimitazione tendessero ad essere completate dall’atto percettivo che si configurava pertanto come una funzione non unicamente ricettiva ed elementare quanto come funzione capace di organizzare attivamente i dati sensoriali in funzione di una capacità intrinseca e non necessariamente derivata dall’esperienza.
Già nel 1927 una psicologa gestaltista, Bluma Zeigarnik, aveva sperimentalmente dimostrato come una situazione inconclusa polarizza una carica di energia destinata a completarla rendendo la stessa energia indisponibile per altri tipi di esperienza. Il mancato completamento della situazione precedente comporta un ripresentarsi ripetitivo della situazione stessa anche in luoghi e tempi successivi interferendo quindi con la possibilità dell’individuo di entrare efficacemente in contatto con i contesti in cui di volta in volta verrà a trovarsi.
L’elemento innovativo introdotto da Perls fu quello di estrapolare questo principio dall’ambito delle leggi della percezione applicandolo ad una dimensione esistenziale ed evolutiva dell’individuo e quindi alla sua possibilità di utilizzazione in psicoterapia.
I concetti richiamati in precedenza rimandano ad un altro aspetto fondamentale della Psicologia della Gestalt, quello di figura/sfondo. Alcuni giochi che fanno leva sulle dinamiche percettive relative a queste due realtà dinamicamente interconnesse sono a tutti noti.
L’organizzazione del campo percettivo in figura e sfondo venne introdotta da Edgar Rubin che mise in risalto come la figura emergente suole essere contraddistinta da contorni definiti, rappresenta il focus dell’attenzione ed è caricata di una maggiore energia di relazione con l’osservatore. Lo sfondo, al contrario, rappresenta il resto del campo visivo ed è caratterizzato da attributi inversi a quelli menzionati per la figura emergente.
E’ interessante notare come allo stesso Rubin non sfugge l’importanza dell’esperienza passata dell’osservatore nell’investire di connotati affettivi gli elementi del campo osservato; di qui la tendenza non causale a privilegiare l’uno o l’altro elemento come focus dell’attenzione.
Il contatto con lo sfondo deve restare tuttavia aperto e fluido per evitare l’irrigidimento su figure che perdono di significato evolutivo e consentire al contrario l’emergere dal fondo stesso di realtà che, in un flusso continuo di ridistribuzione energetica, vanno successivamente acquisendo significato.
Un altro singolare fenomeno individuato da Rubin consiste nella sensazione di sgradevolezza allorchè un soggetto viene invitato a focalizzare, anzichè l’elemento figura, l’elemento sfondo.
Seppure Perls non si riferì mai esplicitamente a questo dato per riportarlo al suo campo di esperienza, egli teorizzò l’uso della frustrazione nell’invitare il paziente a prestare attenzione ad elementi che volutamente evita di far emergere in primo piano ma che, pur essendo forzatamente lasciati sullo sfondo, risultano del pari carichi di significato in un certo momento. Il sentimento di frustrazione che accompagnerà in questo caso l’operazione, cui il paziente viene invitato, di prestare attenzione a realtà cui si rifiuta di essere aperto, si riveleranno portatrici di utili potenzialità.
LA TEORIA DEL CAMPO
Il tema dell’interazione tra individuo e ambiente costituisce un altro dei fondamenti della psicologia della Gestalt, in particolare per come andò sviluppandosi attraverso il lavoro di A. Goldstein e di K. Lewin. Quest’ultimo, in particolare, utilizzando le ricerche che sul versante della fisica delle forze elettromagnetiche andavano sviluppando Faraday, Hertz, Einstein e Maxwell, sviluppò quel modello interpretativo delle relazioni individuo/ambiente noto come Teoria del Campo.
Secondo questa impostazione ogni oggetto non può intendersi che in relazione al contesto totale nel quale è incluso. La traslazione operata da Lewin dal campo delle forze fisiche di attrazione/repulsione ai comportamenti che è dato osservare nelle dinamiche all’interno dei piccoli gruppi intesi, a loro volta, come rientranti in sistemi di interazione più allargata, venne da Perls ripresa ed estesa anche a quanto avviene all’interno dell’individuo stesso.
L’individuo infatti, nell’espressione della sua esistenza concreta, non fa che muoversi all’interno di un campo di forze originate da interazioni di attrazione o repulsione in rapporto ad elementi esterni come pure risultanti dagli equilibri di forza tra elementi costitutivi del suo mondo interiore.
L’interpretazione del comportamento dell’individuo come imprescindibilmente collegato al campo di forze del contesto ambientale in cui si trova, sviluppata da Lewin, apriva quindi la possibilità di arricchire il tema della dinamica figura/sfondo di un ingrediente fondamentale: quello appunto dell’elemento di forza teso a riportare il sistema ad uno stato di equilibrio omeostatico e di ridistribuzione ottimale delle valenze energetiche all’interno di un determinato campo.
«Il presupporre l’esistenza di uno stato stazionario di tensione, inoltre, implica una certa rigidità da parte del sistema in questione» asserisce K. Lewin (Lewin, tr. it. 1961). Tale rigidità, possiamo aggiungere anche alla luce dei successivi sviluppi della stessa Teoria di sistemi, è in relazione al fatto che il sistema considerato sia rigido o elastico, chiuso o aperto. Mentre infatti un sistema chiuso tende a mantenere uno stato di equilibrio nel rapporto tra gli elementi costitutivi, un sistema aperto all’immissione di elementi nuovi o influenzabile in qualche modo da altri sistemi o da un sistema più allargato che lo comprende, sarà soggetto ad una dinamica continua di redistribuzione di forze e di aggiustamenti reciproci tra le componenti. Tale è la situazione che inevitabilmente si osserva nell’uomo che rappresenta senz’altro il livello di più alta complessità di fattori e dimensioni interagenti, nei confronti di altre specie animali e degli elementi inanimati.
L’imprescindibile necessità di accostarsi all’uomo, ai suoi vissuti ed ai suoi comportamenti senza perdere di vista la dimensione sistemica, il campo delle forze all’interno del quale lo stesso si muove, rappresenta uno degli elementi che spinsero Perls a prendere le distanze dall’impostazione psicoanalitica tradizionale che poneva tutta la propria attenzione sugli avvenimenti interni dell’analizzato senza prendere in considerazione le interazioni in concreto con l’ambiente e privilegiando, nella stessa relazione transferale col terapeuta, gli elementi che lo legano al passato anzichè quelli che hanno a che fare con la sua attuale modalità di rapportarsi con aspetti di realtà.
A favorire l’apertura su di una considerazione allargata degli accadimenti umani erano stati in vero anche due dei quattro analisti con cui Perls aveva lavorato individualmente. Sia la Horney, infatti, come più ancora Reich (e successivamente E. Fromm) rappresentano esponenti autorevoli della psicoanalisi che si dimostrano maggiormente interessati a considerare l’importanza non solo degli elementi pulsionali, endogeni, secondo l’impostazione originaria della teoria freudiana degli istinti, ma anche degli aspetti collegati al contesto socio-ambientale in cui l’individuo si muove. E questo non solo ad un livello di considerazioni metapsicologiche più generali, ma anche nel concreto del lavoro clinico sul soggetto.
Tale impostazione, quella cioè di lavorare direttamente sui sistemi allargati, famiglia e rete sociale, verrà come è noto sviluppata dai terapeuti relazionali coerentemente ai postulati dellateoria generale dei sistemi e della comunicazione, ma trova nel lavoro nei gruppi, con le coppie e le famiglie, come infine nel lavoro di drammatizzazione tra parti interagenti del sè dell’individuo (secondo la tecnica del monodramma ampiamente utilizzato in Gestalt) una chiara espressione di come intendere un lavoro su di una figura emergente che non può comunque mai prescindere dal tenere presente le realtà contestuali (di sfondo) se non a costo di una riduttiva depauperazione del fenomeno stesso.
La posizione di Perls si trova in effetti a ponte tra la teoria psicoanalitica riguardo agli istinti e quella cosiddetta situazionista. Con questo termine, usato da Wolman a proposito delle concezioni di Lewin, si intende infatti la tendenza ad interpretare il comportamento umano in funzione delle forze presenti nel campo analogamente a quanto viene proposto nel modello del primo comportamentismo che, focalizzando l’attenzione sulla dinamica stimolo-risposta, lascia in secondo piano (piano che in realtà sta emergendo nelle più recenti elaborazioni ad opera della scuola cognitivista) gli elementi intrapsichici dell’individuo e quindi le sue facoltà di opzione consapevole.
OLISMO ED EVOLUZIONE
Perls ricevette importanti stimoli sulla concezione olistica da parte di J. Smuts (1870-1930), filosofo e scienziato che, a seguito delle sue ricerche, pubblicava sull’argomento Olismo ed evoluzione (1926) proprio in Sud Africa (Paese di cui fu anche primo ministro) dove i due ebbero modo di conoscersi.
Secondo questo autore la evoluzione può definirsi come “lo sviluppo e la stratificazione graduale di serie progressive di totalità che si estendono dall’inorganico fino ai livelli più elevati della creazione spirituale”.
A partire quindi da realtà aggregative più elemenari, come possono essere le prime molecole inorganiche, la spinta evolutiva fa progredire l’universo verso sintesi sempre più complesse sotto forma di totalità che andranno a costituire a loro volta sovratotalità in un proliferare inesausto di complessità interagenti.
Anche in questo caso, fu merito di Perls tradurre un concetto scientifico-filosofico nella pratica della applicazine clinica.
In una impostazione definita di olismo situazionale la condotta degli individui sarebbe determinata dall’emergenza di bisogni organizzati gerarchicamente in funzione di due categorie fondamentali: il bisogno di sopravvivenza e quello di crescita.
L’Evoluzionismo di Smuts, consentì una progressiva radicalizzazione del concetto già implicito nella psicoanalisi e che evidenzia nel blocco, nella fissazione dei processi di maturazione psico-emotiva l’origine della nevrosi. Compito precipuo del terapeuta è quindi evidenziare gli elementi di auto-interruzione e quindi di auto-sabotaggio di detto fluire evolutivo ed adoperarsi per favorirne il superamento.
In termini di concreta applicazione, il concetto di olismo implica conseguenze molto concrete: ogni fenomeno comporta generalmente sia aspetti di carattere cognitivo, che emozionale, sensoriale, immaginale e relazionale. Un pensiero, in altri termini, è generalmente associato ad una tonalità emotiva. La stessa comporta riverberazioni sul versante corporeo sia di tipo vegetativo che neuromotorio. Queste possono tradursi a loro volta in comportamenti agiti (verbali, mimico-gestuali o condottuali) con possibili conseguenze sulle relazioni.
Un buon lavoro gestaltico comporta quindi l’attitudine a dare tridimensionalità al vissuto emergente. Se la porta d’ingresso è un pensiero, ad esempio un ricordo o una traccia onirica, è utile collegarla appunto all’emozione che a questo si associa nonchè alla sensazione somatica che la accompagna. Lo stesso valga per una emozione: quale immagine evoca e a quale pensiero si associa?
Lo stesso elemento cognitivo, ad esempio un’immagine onirica, può infatti avere per l’individuo significati assai diversi. L’uso di un impersonale codice di decifrazione, in questo caso un dizionario dei simboli, potrà indurci a false interpretazioni se non raccorderemo tale evocazione simbolica al vissuto emotivo evocato nel sognatore.
L’attitudine ad utilizzare abitualmente uno spettro comunicativo olistico consentirà in altri termini di non restare vincolati ad un unico codice semantico con possibilità di ricostruire in modo più rispondente lo spessore del vissuto che ci viene riferito.
L’AUTOREGOLAZIONE ORGANISMICA
Mentre il principio omeostatico deriva profondamente dal concetto di dominanza introdotto da Lewin, la tendenza fondamentale dei viventi alla crescita trova un antecedente nella funzione di autorealizzazione introdotta da Goldstein (Goldstein, 1939).
A tale conclusione Goldstein (1878-1965) era giunto conducendo le sue ricerche, come neurochirurgo a aderente alla Gestaltpsychologie, su reduci della prima guerra mondiale con lesioni cerebrali ed osservando come un danno del sistema nervoso non produce una menomazione localizzata ma comporta una modificazione complessa che coinvolge l’intero organismo, la struttura della sua personalità e i suoi rapporti con l’ambiente.
Una concezione di tipo atomistico cedeva il posto ad una di tipo olistico in cui funzioni biologiche, psicologiche e di relazione non sono che aspetti di un’unica dimensione composta di livelli interagenti e non separabili. E’ pertanto nella dinamica intrinseca dell’individuo colpito che avviene il processo di riorganizzazione delle proprie funzioni seppure a livelli inferiori a quelli posseduti anteriormente al trauma.
Tale concezione suggerì a Goldstein una impostazione terapeutica, definita organismica, tesa a favorire l’autoregolazione dell’individuo a partire dalla acquisizione delle risorse reali disponibili da armonizzare in una strategia che ne consenta la complessiva ottimizzazione.
Tale concetto implica una continua negoziazione tra individuo e ambiente tendente alla attualizzazione delle risorse potenziali ed al raggiungimento di una situazione ottimale dal punto di vista del riequilibrio energetico attraverso le fasi della accumulazione, distribuzione e scarica della energia stessa.
L’uomo in realtà è cronicamente insoddisfatto e tale condizione, riferendosi alla concezione del nostro autore, nasce appunto dalla sua incapacità di essere quello che è. Più che una teoria generale sulla natura dell’uomo Perls ci dà semmai degli strumenti che un’esperienza ormai consolidata hanno dimostrato essere utili nel cammino di questa ricerca. Più in particolare, il nucleo che unisce innumerevoli esercizi, invenzioni e tecniche resta l’esercizio della consapevolezza di ciò che sentiamo, siamo, vogliamo o non vogliamo scambiare con l’ambiente in cui ci muoviamo.
Molti degli esercizi presentati nella prima parte della libroTerapia della Gestalt (1951) hanno lo scopo di produrre un sovvertimento di schemi di riferimento vissuti come imprescindibili e quindi rigidamente immutabili. Infinite ingiunzioni di tipo limitativo restringono in effetti la gamma delle nostre possibili esperienze di vita e ci costringono forzosamente entro schemi ripetitivi di pensiero e di comportamento in cui viene meno il fondamentale aspetto del fluire sempre nuovo del vivere e del conoscere.
I fondamenti filosofici della terapia della Gestalt
Per citare Walter Kempler «La Terapia del Gestalt, anche se formalmente si presenta come un tipo specifico di psicoterapia, si fonda in realtà su principi che possiamo considerare come una solida forma di vita. In altre parole è innanzitutto una filosofia, uno stile di vita» (Kempler, 1973, 271).
Tracciare un confine tra una teoria psicologica ed una filosofia sull’uomo non è semplice se non addirittura arbitrario. Con esclusione delle ricerche psicologiche e delle pratiche psicoterapiche che si propongono aree di intervento assai settoriali, è fatale che ogni approccio che si apra ad una conoscenza più ampia dell’uomo, alle forme di sofferenza che inevitabilmente accompagnano i suoi modi-di-essere-nel-mondo si confronti con alcuni interrogativi più generali sulla natura stessa dell’esistenza umana.
La posizione di Perls al riguardo è singolare perchè, mentre da una parte egli si dimostra allergico ad ogni forma di dottrina (che, accettando la definizione di Claude Bernard, si differenzia dal concetto di teoria nella misura in cui si presenta come sistema interpretativo non più verificato nelle sue ipotesi da dati sperimentali e di analisi critica in perenne evoluzione) di carattere filosofico, antropologico e religioso, dall’altra pone le condizioni per lo sviluppo di un metodo di ricerca esistenziale che in modo del tutto particolare si proietta sui grandi temi dell’esistenza umana.
Volendoci interrogare su quali indirizzi di carattere filosofico-antropologico confluiscono in modo più significativo nella concezione della Gestalt, troviamo, come già accennato, elementi di provenienza diversa anche se, tradizionalmente, è la visione fenomenologico-esistenziale quella sicuramente più rilevante.
Ma vediamo, più da vicino, come le implicazioni di una impostazione fenomenologico-esistenziale, in cui invero Perls ha fatto solo sporadici riferimenti espliciti, confluiscano di fatto nella Gestalt tanto da far dire a Van Dusen, a proposito delle terapie analitico-esistenziali, come «c’è un approccio psicoterapico che si adatta in modo più aderente alla teoria. In effetti una stretta aderenza alla teoria richiede un approccio particolare. L’approccio è stato chiamato Terapia della Gestalt e gran parte del merito di questa creazione va attribuito al dr. F. S. Perls» (Van Dusen,1960).
L’esistenzialismo
Con la concezione esistenziale, al di là delle diversificazioni rilevanti che in essa è dato riscontrare, la Gestalt condivide tuttavia alcuni fondamentali presupposti come:
– il primato del vissuto concreto nei confronti dei principi astratti;
– l’irripetibile singolarità dell’esperienza umana mai completamente assimilabile a modelli generalizzati di riferimento;
– la nozione di responsabilità (abilità a rispondere), di possibilità di scelta pur all’interno di innegabili condizionamenti biologici e socioambientali coerentemente all’aforisma di J.P. Sartre per il quale importante non è ciò che gli altri ci fanno, ma ciò che noi facciamo di ciò che gli altri ci fanno.
Anche a livello di intervento terapeutico “La terapia gestaltica è un approccio esistenziale, e questo significa che non ci occupiamo soltanto di trattare con i sintomi o con la struttura caratteriale, ma con l’esistenza totale della persona.” (Perls, 1969, 75).
Riguardo all’esistenzialismo Perls afferma che «La Terapia della Gestalt è, attualmente, una delle tre terapie esistenziali di cui sono a conoscenza la Logoterapia di V. Frankl, la Daseinanalyse di L. Binswanger e la Terapia della Gestalt”.
L’orientamento a superare la dimensione dicotomico-contrappositiva – estesa da Perls alla polarità mente-corpo, causa-effetto, soggetto-oggetto, individuo-ambiente, osservatore-osservato etc. – come superamento di un’impostazione filosofico-scientifica assai radicata nell’occidente (Platone, Cartesio, Galileo etc.) lo porta ad esplorare sino alle conseguenze estreme l’ipotesi di una dimensione di polarità non intrinsecamente contrapposte, ma anzi inscindibilmente interagenti in una relazione di complementarietà dinamica.
Tale impostazione trova significativi antecedenti nella impostazione della Psicologia della Gestalt (relazione dinamica di figura-sfondo, individuo/ambiente), nella visione hegeliana della tesi-antitesi-sintesi, nella concezione psicosomatica (attraverso le acquisizioni di Groddeck, Alexander etc.), nella visione di C. Jung sulle polarità dinamiche (maschile-femminile, sottopersonalità scisse o in rapporto dialettico) come infine nella visione filosofica orientale che si riassume in particolare della concezione del Tao.
In una visione olistica di interazione tra i diversi livelli di complessità tra loro circolarmente interagenti Perls rifiuta sia l’orientamento a ridurre il tutto ad una dimensione materialistica come pure spiritualistica. Egli introduce, forse con qualche approssimazione e senza sostanziare la sua posizione con una più ampia elaborazione concettuale, il concetto di naturalità biologica intendendo con questo termine ben più dei semplici accadimenti della sfera organica, bensì i diversi livelli di complessificazione che in una dimensione comunque di sostanziale omogeneità ne derivano.
Di parere analogo è Van Dusen che per la concezione gestaltica preferisce parlare di indirizzo esperienziale che esistenziale non ravvisando quell’elemento di intrinseca conflittualità proprio della umana esistenza dove si sottolinea tra l’altro l’elemento semantico di ex-sistenza, una condizione cioè a cavallo tra l’essere e l’essere fuori dall’essere, condizione che appunto contraddistingue la possibilità del pensiero riflessa e la domanda sul significato stesso dell’esistere inscindibilmente legato alla consapevolezza della morte.
Nella conecezione per la quale “la gestalt che si forma nella nostra fantasia deve coincidere con la gestalt nel mondo esterno, per poter giungere ad una conclusione, per poter affrontare la vita, per concludere la situazione e così via” (1973, 157) Perls dimostra di aderire ad una concezione monistica o quantomeno di dualismo parallelistico, una sorta di potenziale intriseca corrispondenza, cioè, tra avvenimenti reali e rappresentazioni mentali. Come giustamente fa rilevare G. Ariano (1994) il desiderio di Perls fu quello di “integrare in un modello unitario l’anima organismica e quella fenomenologico-esistenziale”.
Il potenziale umano
“La Terapia della Gestalt è un modo di occuparsi di un altro essere umano per dargli la possibilità di essere se stesso, “saldamente radicato nel potere che lo costituisce”, per prendere a prestito una frase di Kierkegaard” (P Baumgardner, 1975, 15).
La Gestalt privilegia infatti, come del resto altri indirizzi di carattere umanistico, la potenzialità di realizzazione positiva nell’interazione individuo-ambiente allorchè non ostacolata dalle sovrastrutture dei condizionamenti sociali, la sostanziale omogeneità e corrispondenza tra bisogni dell’individuo e possibilità di soddisfacimento, e non gli aspetti di intrinseca conflittualità propri dell’esistenza umana ineluttabilmente al bivio tra la accettazione estrema della morte e del nulla (Sartre o Heidegger che concepiva la vita come «fondamento nullo di un nulla») o il trascendimento dell’esistenza naturale stessa (Kierkegaard, Marcel).
Una terza via, a cavallo tra le due, viene avanzata da Van Dusen con la prospettiva secondo la quale «Se l’esistenzialismo fosse realmente fedele a sè stesso, avanzerebbe nella direzione del Taoismo orientale e del Buddismo Zen essendo incline a rispondere alle domande di chi cerca di capire con lo studio con un puro silenzio, con un puro esperire» (Van Dusen, 1960, 78). Tale posizione può considerarsi sicuramente condivisa da Perls che fu un cultore dello Zen seppure più nello spirito del suo messaggio che nella assiduità della pratica che tradizionalmente lo contraddistingue.
Coerente, a mio avviso, con la posizione di Perls è anche un esistenzialismo che, nella definizione di Nicola Abbagnano, «richiama l’uomo all’impegno verso la propria natura finita, lucidamente riconosciuta ed accettata. Il filosofare che esso tende a fondare è l’autentico esistere che è giunto alla chiarezza e sincerità con sè stesso». Un «esistenzialismo positivo», quindi, come appunto si intitola un saggio del filosofo del 1948 dove l’esistenza, pur muovendosi nell’ambito della possibilità e del dubbio, può recuperare quel tanto di funzione critica, di spinta creativa, quegli spazi pur delimitati di libertà e di scelta che ne autorizzino un’immagine di dignità.
Nell’aderire ad un pensiero filosofico, Perls, non è stato attratto tanto dall’aspetto speculativo quanto dalla componente esistenziale collegata ad un particolare modo di essere: “Bergson ha reintegrato il termine “intuizione” per indicare quella conoscenza più profonda della nostra esistenza, che va oltre le immagini e le parole” (F. Perls, 1947, 225).
Coerentemente all’impostazione esistenziale, la Gestalt si riconosce nell’alveo della Psicologia Umanistica (inaugurata negli anni ‘50 da Abraham Maslow, Rollo May, Carl Rogers e altri) che – definendosi come terza via tra un orientamento troppo incline agli accadimenti intrapsichici come la Psicoaanalisi classica da una parte o troppo incline allo studio obiettivante dei comportamenti agiti come il Comportamentismo dall’altra – si propone di “ricollocare l’uomo al centro della psicologia” intesa come scienza umana intrinsecamente al confine tra le scienze della natura e quelle dello spirito.
La fenomenologia
Di importanza non minore appare la derivazione (o comunque la vicinanza) della Gestalt alla concezione fenomenologica.
Questo indirizzo, che impropriamente viene considerato filosofico dal momento che (salvo l’evoluzione dell’ultimo Heidegger verso un’antropologia che si interessa delle strutture ontiche sottostanti la multiforme fenomica dei modi-di-essere-nel-mondo) non propone un sistema di credenze, quanto piuttosto una modalità di indagine nella conoscenza dell’uomo. In questa realtà irriducibile ad operazioni di elementare obiettivazione, le scienze dell’uomo (Geistwissen-schaften) vengono quindi distinte da quelle che studiano gli oggetti inanimati (Naturvissenschaften).
Di fronte all’impossibilità di erklaren (spiegare) l’uomo ed i suoi accadimenti è più realistico e legittimo tentare di immedesimarsi nel suo particolarissimo modo-di-essere-nel-mondo(da-sein) attraverso un’attitudine partecipativa e sgombra di preconcetti che consenta di com-prendere, o quantomeno di avvicinarsi (verstehen), ad un fenomeno mai completamente riconducibile a schemi rigorosamente generalizzabili.
Si tratta quindi di avvicinarsi alla particolare weltanschaung, alla visione del mondo attraverso le tante manifestazioni (parole, gesti, rappresentazioni, comportamenti) della persona cui ci accostiamo nell’attitudine di favorire i suoi processi intrinseci di sviluppo (talvolta anche noi condividendoli, ma confidando tuttavia nella capacità di autoregolazione organismica dell’individuo) anzichè sovrapporre od imporre i nostri attraverso tecniche più o meno direttive o manipolative.
Sviluppare quindi l’attitudine a cogliere i fenomeni, e a farlo affinando vieppiù le capacità percettive e di ascolto come pure l’abilità a favorire l’aggregazione dei dati raccolti in insiemi significativi ed unificanti che corrispondano quanto più possibile alle rappresentazioni dell’interlocutore non contaminandole con elementi protettivi.
Per estendere al tema un concetto di Husserl «Si tratta di ritornare al discorso sulle cose, alle cose stesse, tali e quali appaiono a livello di fatti vissuti, anteriormente ad ogni elaborazione concettuale deformante» (da S. Ginger, 1987, 64).
Al di là di interpretazioni riduttive per le quali il fenomeno sarebbe “ciò che appare immediatamente” o “ciò che appare ovvio” appare indubbio il radicale convincimento di Perls condiviso con Husserl per il quale “l’essenza dell’essere è di svelarsi, manifestarsi, di apparire, di essere fenomeno” (da G. Ariano, 1994, 36) motivo per il quale non si tratta di andare al di là del fenomeno per accedere al noumeno, alla verità ultima dal momento che è appunto attraverso questo che la verità si esprime.
Il pensiero differenziale di S. Friedlander
Come abbiamo già accennato, Perls dedicò il suo primo libro L’Io, la fame e l’aggressività a S. Friedlander proponendosi nello stesso di applicare il “pensiero differenziale” ispirato allo stesso filosofo.
Dei più di 40 libri scritti, il filosofo addita in particlare ne L’io magico e l’Esperimento uomo il suo superamento del pensiero lineare (causa-effetto) a favore di quello differenziale che tiene in conto gli opposti da una posizione di neutralità e che chiamò il principio della “indifferenza vivente di fronte alla polarità del mondo”.
Perls riprende fedelmente questo concetto (1947, 17) asserendo come “Ogni evento si relaziona con un punto zero a partire dal quale si realizza una differenziazione in opposti. Questi opposti manifestano, nel suo senso proporio, una grande affinità tra loro. Mantenedo l’attenzione al centro, possiamo acquisire una capacità creativa per vedere entrambe le parti di un vissuto e complementare una parte incompleta. Evitando una visione unilaterale, acquisiamo una comprensione molto più profonda della struttura e della funzione dell’organismo”.
Non può sfuggire l’importanza di questa premessa per lo sviluppo della concezone gestaltica sulle polarità, come superamento del pesiero duale dicotomico.
Ci sono tuttavia altri aspetti di rilievo che Perls avrebbe tratto da Friedlander che la doverosa sintesi di questa presentazione non consenono di approfondire e che sono stati acutamente individuati da C. Naranjo. Solo a titolo di menzione citiamo: la coscienza indifferenziata o pre-differenziale, che si avvicina al concetto del vuoto del buddismo mahayanico, e che il filosofo identifica come coscienza pura, o pura individualità.
Tale centro coscienziale, che coincide con l’individualità profonda, è anche la sede della volontà e della libertà. Non tanto di una volontà arbitraria del soggetto, quanto il rispecchiamento nello stesso di un volere cosmico e trascendente “il tutto vissuto soggettivamente. Con una connessione soggettiva con il tutto”.
Vedremo più avanti come la stessa concezione sul Sé, nel pensiero di Perls, risente di tale impostazione per la quale si distanzia dalla concezioni delle fuzioni psichiche in quanto riconducibili ad apparati di derivazione freudiana.
Altre componenti dell’approccio gestaltico
Il corpo
In un certo senso, come opportunamente fa rilevare G. Donadio (1987) l’Analisi del Carattere di Reich rappresenta il secondo pilastro della Gestalt assieme all’impostaizone fenomenologico-esistenziale. Il corpo, superata una concezione minimalista di derivazione postplatonica che attraversa il tema della conoscenza nella cultura dell’occidente, è più che il corpo. Per riprendere Nietzsche, da La volontà di potenza “E’ essenziale partire dal corpo e utilizzarlo come guida. E’ il fenomeno più ricco che permette le osservazioni più chiare. Credere nel corpo è più fondamentale del credere nello spirito”.
L’enfasi posta dall’approcco della Gestalt sul corpo ha portato non raramente ad inserire la stessa tra gli approcci psicorporei. Tale impostazione, seppure non priva di fondamento, va chiarita con alcune precisazioni.
Perls riconosce a Wilhelm Reich come “la sua nozione di identità funzionale all’interno di un fenomeno corporale (contratture e tensioni muscolari) e uno emozionale e pertanto psicologico (la difesa), fu la chiave per il lavoro sul corpo e la somatizzazione. Ciò implicò la consapevolezza che i fenomeni mentali e quelli fisici formavano una unità e potevano essere accessibili tanto all’intervento psicologico come a quello somatico. Reich fu il primo a mettere in relazione con chiarezza il funzionamento corporale e psicologico come un tutto unico. Formulò anche la prima metodologia somatica o “lavoro corporeo” con obiettivi terapeutici: la liberazione di emozioni e di energia psichica bloccata come una espressione di conflitti e fissazioni nello sviluppo”.
Da un’altra parte Goodmann (che fu anche uno dei primi allievi e pazienti di Lowen, padre della Bioenergetica) e Perls (1951) si discostano dall’approccio reichiano e loweniano nella modalità di operare sulle resistenze. Le stesse, anzichè essere oggetto di un lavoro mirato e spesso settoriale, debono essere messe in relazione al contesto psicoemozionale che esprimono “la tensione muscolare è una funzione dell’io, parte del Sé, anche se negata e fuori dalla coscienza”.
Gli stessi Autori si mostrano “critici nei confronti di tutti i metodi meccanici (come la manipolazione del corpo per rilassarso o per cambiare la postura) e con il linguaggio dualistico di molti approcci che sembrano parlare del corpo come separato dalla totalità organismica” come ricorda giustamente P. Peñarubia (1977, 186).
Oltre ai contributi di Reich, Perls fa frequente riferimento, specie nelle sue prime opere, anche al lavoro 1) di M. F. Alexander incentrato sull’aiutare il paziente ad acquistare coscienza dei dettagli della sua postura e dei suoi movimenti per migliorare l’uso che fa abitualmente del suo corpo e conseguire un rilassamento delle tensioni inutili, un miglior uso della muscolatura e la sensazione di leggerezza e libertà e 2) di E. Jacobson, psicofisiologo americano che elaborò un metodo: “rilassamento progressivo”, centrato sulla regolazione del tono muscolare attraverso la riduzione progressiva e volontaria della contrazione.
Anche nei confronti di questi approcci, Perls si differenzia ribadendo come “ai nostri pazienti non chiediamo di rilassarsi intenzionalmente tranne quando giungono ad essere consapevoli del conflitto interno del quale la tensione è un’espressione (Perls, 1948).
Sul versante del lavoro corporeo sono importanti anche i contributi introdotti da Laura Perls che, anche in polemica con il marito, riferisce come “Nella pratica l’abitudine di centrarsi nella coscienza del corpo non fu incorporata alla Terapia della Gestalt attraverso il lavoro di Reich, bensì fu dovuto dell’euritmia e alla danza contemporanea, ai miei studi di movimento espressivo e creatività ispirati all’opera di Ludwig Klages, alla mia conoscenza dei metodi di G. Alexander e M. Feldenkrais. Solo molti anni dopo si inventava la Bioenergetica e altre terapie corporee”.
Va detto, a conclusione di un paragrafo che potrebbe essere ovviamente assai lungo e complesso che, come Laura Perls sintetizza a proposito del suo stile di lavoro: “Ogni gestaltista sviluppa uno stile proprio; io lavoro molto con la coscienza corporale, con la respirazione, la postura, la coordinazione, la fluidità dei movimenti, le espressioni della faccia, i gesti, la voce, perché ho studiato musica, euritmia, danza contemporanea, i metodi orientali che si basano sul corpo”.
Molti terapeuti della Gestalt sviluppano delle competenze anche in altre tecnche di approccio corporeo che integrano nel proprio lavoro clinico con sintesi diversificate e personali.
Il teatro e lo psicodramma
Tra gli ingredienti più significativi che è dato riscontrare nell’opera di sintesi operata da Perls, quella del teatro viene spesso sottovalutata. Il giovane Perls si formò con il celebre regista di teatro M. Reinhardt e partecipò anche a rappresentazioni teatrali di un certo significato. Dallo stesso apprese a farsi completamente “apparato recettore” ad “ascoltare con tutti i mezzi a sua disposizione, orecchi, occhi, naso, bocca aperta, persino con la pelle” sviluppando l’attitudine a cogliere ogni moto espressivo del paziente, sfumature tonali, microgestualità, cambiamenti di postura.
E infine la capacità di entrare nel personaggio. Non solo quello che doveva di essere recitato, ma nella modaltà specifica che l’attore intendeva esprimere nella sua interpretazione.
Ma ci sono anche altri aspetti importanti del lavoro gestaltico, maggiormente collegati allo psicodramma di J. Moreno. Molti sono i punti di contatto, specie nell’applicazione in gruppo del lavoro gestaltico. Entrambi i metodi condividono lo stesso substrato filosofico, fenomenologco ed umanistico nonchè la attitudine terapeutica, l’importanza della mobilizzazione corporea, la spontaneità e la creatività, l’esplorazione delle emozioni inespresse attraverso la attualizzazione della scena o la situazione inconclusa, il valore della catarsi, come garanzia di un insight non meramente intellettuale e l’uso del gruppo come contrasto, confronto, amplificazione della coscienza del protagonista.
Accanto alle somiglianze non dobbiamo tuttavia trascurare le differenze. La principale viene espressa dallo stesso Perls in questi termini: “Moreno chiama a recitare altre persone che sanno molto poco del paziente. Portano le loro proprie fantasie ed interpretazioni che falsificano il ruolo del terapeuta. Però se tutto lo fa la stessa persona, almeno sappiamo che stiamo trattando di una stessa persona. Inoltre, nello psicodramma generalmente ci si attiene solo a delle persone mentre, al contrario, la sedia vuota ci permette di rappresentare qualunque tipo di ruoli: ruote, ragni, dolori di testa, silenzio” (1969, 134).
Coinvolgere altri membri del gruppo per impersonare elementi fantasmatici (personaggi onirici) o reali con i quali il soggetto (o una sua sottoidentità) si mette in relazione implica infatti un inevitabile rischio di contaminazione proiettiva dal momento che il membro del gruppo sarà portato a proiettare sul personaggio agito elementi suoi propri. Tale interferenza comporterà una complessificazione delle gestalten in gioco con maggiore difficoltà a processare quelle inizialmente proposte. Aprire molte gestalten senza seguire il processo evolutivo di una, può produrre abbondanza di materiale ed effetti drammatici pregevoli, non è generalmente segno di un buon lavoro gestaltico.
Il pensiero orientale e lo Zen
Ai contributi del pensiero occidentale vanno aggiunti quelli del pensiero orientale che, benchè solo parzialmente sviluppati da Perls, rappresentano componenti spesso non accessorie dell’impostazione gestaltica.
Un menzione particolare merita indubbiamente lo Zen che, dice Perls “mi aveva attirato in quanto rappresentava la possibilità di una religione senza Dio” (F. Perls , 1969, 102).
Nell’inesausta curiosità per elementi sempre nuovi da integrare nella propria visione del mondo e nel proprio lavoro clinico, afferma Perls: “Lo Zen mi affascinò sempre di più con la sua saggezza, il suo potenziale, la sua attitudine non moralistica. Paul Zeis cercò di integrare la Gestalt e lo Zen, la mia ricerca metteva più l’accento sulla ricerca di un metodo praticabile per aprire questo tipo di autotrascendenza all’uomo occidentale.” (F. Perls , 1969, 102).
E’ anche vero che l’atteggiamento irriverente e non incline a fideistici quanto superficiali entusiasmi preservarono Perls da atteggiamenti che, con terminologia attuale, potremmo definire di stile New Age, e che tendevano a diffondersi già nel clima culturale della California degli anni ‘60.
“Ci vogliono anni… ci vogliono anni prima di essere centrati. Ci vogliono ancora più anni per capire e per essere ora. Ma fino a quel momento diffida di entrambe gli estremi. Sia del perfezionismo che della guarigione istantanea, della gioia istantanea, della consapevolezza sensoriale istantanea. Fino a quel momento diffida di chi dice che ti vuole aiutare. Sono imbroglioni che ti promettono qualcosa in cambio di niente. Ti viziano e ti fanno rimanere dipendente e immaturo” (F. Perls, 1969, 102).
Nel tentativo di identificare gli elementi di concordanza tra le vie dello Zen e della terapia della Gestalt possiamo menzionare:
– la focalizzazione sull’esperienza nel presente, sul qui ed ora;
– il superamento della concezione dualistico-contrappositiva;
– l’adesione alla concezione del fluire energetico come condizione di salute e al blocco come espressione di sofferenza e di malattia;
– l’enfasi sulla consapevolezza più che sulla attitudine intellettualistica nel processo di conoscenza;
– la valorizzazione dei vissuti corporei come veicolo di conoscenza e di radicamento nel presente;
– la fiducia nei processi autoregolativi;
– il privilegio per l’immanenza rispetto alla trascendenza;
– l’apprezzamento per la sobrietà nell’uso della parola e la valorizzazione della comunicazione non-verbale;
– la valorizzazione dell’immediatezza e della comunicazione diretta e non mediata;
– il concetto di vuoto fertile;
– la tensione verso la realizzazione del Sé (self) inteso come equilibrio tra volere e non-volere tra attitudine passiva e attiva;
– accettazione dell’esperienza della realtà in quanto tale al di fuori di tentativi manipolatori pur sostenuti dalle migliori intenzioni;
– attenzione ai metodi di ricerca più che alla codifica di una ideologia statica ed onnicomprensiva.
Alieni dalla tradizione della Gestalt, almeno nello stile di Perls, sono le atmosfere misticoidi. Con scarna definizione di Perls così possiamo in definitiva sintetizzare tale parentela “Sia la Gestalt che lo Zen sono forme, pratiche di approccio alla esperienza della realtà”.
Allo spirito dello Zen è molto vicino anche quello del Tao, da cui lo Zen stesso in parte deriva. In particolare il principio della polarità dinamica (Yin a Yang) trova la Gestalt in posizione di singolare convergenza come vederemo affrontando il tema della dialettica non strutturalmente conflittuale ed oppositiva tra istanze organismiche ed ambientali. Dando la parola a Perls (1951, 441): “Nelle circostanze ideali il Sé non ha molta personalità, esso è il saggio del Tao: è come “l’acqua” ed assume la forma del recipiente. Nei casi in cui il Sé ha molta personalità ciò è dovuto come abbiamo visto al fatto che esso porta addosso molte situazioni incompiute, degli atteggiamenti inflessibili e ricorrenti, delle lealtà disastrose; oppure perché ha abdicato completamente a se stesso e si identifica negli atteggiamenti verso un se stesso che ha introiettato”.
Integrazione della Terapia della Gestalt con indirizzi recenti
Tra gli apporti più recenti, che sono andati di fatto integrandosi nel lavoro gestaltico (rappresentando uno stimolo per la Gestalt o ricevendone vicendevolmente impulsi non trascurabili), sono d’obbligo le menzioni alla Analisi Transazionale di E. Berne, alla Bioenergetica di A. Lowen, alla Reintegrazione Primaria di W. Swartley, al Sogno da svegli guidato di R. Desoille, ai Gruppi di Incontro di W. Shutz, allo Psicodramma di J. L. Moreno, alla Psicosintesi di R. Assagioli.
“Tali combinazioni – precisa infatti Jim Simkin – possono dare il risultato di una terapia assai scadente, se non adottate da uno psicoterapeuta assai dotato”.
Più in generale è da rilevare come, mentre alcune scuole di Gestalt (in particolare quelle di New York e Cleveland) tendono a mantenere una sorta di rigorosa differenziazione dell’approccio gestaltico da influssi di diversa derivazione, altre (quelle della costa californiana, ad esempio, come pure le scuole europee che a quelle si ispirano) sono più inclini a nuovi apporti in una concezione della Gestalt in continua evoluzione.
Una sintesi, che di tali orientamenti è dato tratteggiare, può così riassumersi:
– sviluppo di una Gestalt-analisi intesa come evoluzione dei contenuti e della metodologia di lavoro della psicoanalisi (più spesso di derivazione junghiana o neofreudiana) che si arricchisce di aperture teorico-applicative della Gestalt;
– sviluppo del lavoro sul corpo, in particolare di derivazione reichiana (Bioenergetica, Vegetoterapia, Lomi), come forma di arricchimento delle possibilità di intervento sui blocchi energetici, sui processi primari, sulle emozioni, sulla comunicazione non verbale; massaggio sensitivo o profondo (Rolfing), integrazione posturale (J. Panter);
– il tema del mito (con particolare a quello greco) con integrazioni del concetto di gestalt (intesa come fattore significante di un insieme di elementi in possibile connessione reciproca) con quella di archetipo (in senso junghiano-hillmaniano) e di complesso (in senso freudiano).
– sviluppo delle tecniche meditative (Vipassana, Zen) di auto-osservazione (Gurdjeff), di rilassamento, di concentrazione e di armonizzazione psicocorporea (Yoga, Focusing, meditazioni dinamiche, Psicodanza);
– sviluppo delle tecniche di lavoro in gruppo (Encounter, Psicodramma, Analisi Transazionale);
– sviluppo del lavoro sui sistemi (Terapia della Coppia, della Famiglia, della Rete Sociale) riconoscendosi essenzialmente negli approcci relazionali di orientamento esperienziale (C. Whitaker);
– sviluppo del lavoro sul versante immaginativo (Sogno da svegli guidato, tecniche di visualizzazione), rievocativo sugli stati di regressione (Reintegrazione Primaria), sullo stato di trance (Ipnosi ericksoniana) sugli stati di coscienza alterati attraverso alcune delle tecniche già menzionate, l’iperventilazione del Rebirthing, l’uso della musica;
– sviluppo sul versante delle attività espressive (mimo, teatro, espressione letteraria, arti figurative, creta etc.).
Lungi dall’escludersi, dette direttrici di sviluppo possono trovare feconde possibilità di integrazione, semprechè coerente ne sia la intrinseca logica di armonizzazione. Questa dimensione fa della Gestalt, come più volte è stato detto, un’operazione avvicinabile alla creazione artistica oltre che, senza ovviamente escluderla, al rigore di un percorso scientifico dove per scienza, trattandosi dell’uomo, si intende qualcosa di più e di diverso di un metodo applicabile alle scienze della natura.
Gli elementi costitutivi dell’approccio gestaltico
Il processo della gestaltungh
Se per gestalt si intende la figura-struttura nel suo aspetto statico, per gestaltung si intende, sempre nella lingua tedesca, il processo morfogenetico o di progressiva configurazione delle gestalten nel percorso evolutivo. Tale concetto può, isomorficamente, riscontrarsi nel passaggio sintropico da elementi inorganici più semplici a più complessi (frattali, cristalli), nell’evoluzione di una specie animale, di un pensiero (dall’intuizione di un motivo allo sviluppo di una sinfonia), di una nazione, di un movimento culturale etc. Per quanto riguarda l’ambito che ci interessa più da vicino, e cioè quello dello psichismo, «La qualità più importante e interessante di una gestalt – dice Perls – è la sua dinamica, la necessità imperiosa che una gestalt possiede che la porta a chiudersi e a completarsi. Tutti i giorni sperimentiamo questa dinamica. A volte il miglior nome che si può dare ad una gestalt incompleta è di chiamarla semplicemente situazione inconclusa». Tale schema interpretativo (che possiamo in qualche modo avvicinare al concetto freudiano di fissazione) introduce una possibilità di lettura assai diversa di quei meccanismi ripetitivi che Freud ricondusse all’istinto di morte e che passano sotto il termine di coazione a ripetere. Sarebbe quindi la stessa spinta evolutiva, qualcosa che possiamo quindi avvicinare all’istinto di vita, che giustifica il riproporsi di situazioni pur vissute dolorosamente e non quindi un ipotetico istinto di morte che per tali situazioni può risultare inutile ed anzi svantaggioso invocare. La persona sana, che non subisce continue interferenze per situazioni irrisolte, dispone quindi di tutte le sue energie per entrare autenticamente in contatto con l’ambiente in cui si trova nel continuo fluire del tempo potendo quindi realizzare una soddisfacente osmosi con l’ambiente in cui viene a trovarsi. Tale flusso di scambi soddisfacenti con l’ambiente sarebbe invece ostacolato nell’individuo nevrotico che evidenzierebbe, ad una osservazione accorta dei suoi gesti e modalità di interazione, un frequente ripresentarsi di situazioni di blocco e di autointerferenza. Il lavoro terapeutico si proporrà quindi di far emergere le gestalten incompiute (unfinished businesses) per identificare gli elementi di interruzione e favorirne la naturale evoluzione. Anzichè andare a riesumare i resti mal rintracciabili di un più o meno remoto passato, sarà sufficiente analizzare la struttura interna del modo attuale di relazionarsi all’ambiente (e a sè stesso) per far emergere i meccanismi di autolimitazione e le fantasie che a livello più o meno consapevole li sostengono.
La relazione figura/sfondo “Primo piano e sfondo devono essere facilmente intercambiabili, secondo le esigenze del mio essere. Se così non è, abbiamo accumulazione di situazioni non finite, di idee fisse, di rigida struttura caratteriale. Ai confini avremo turbe del sistema dell’attenzione: confusione, la perdita di contatto, capacità di concentrarsi e di coinvolgersi” (F. Perls, 1969, 16). Perls fa sua senza riserve la dinamica figura/sfondo ed anzi, ancora una volta, ne estende il significato dal campo dei fenomeni percettivo-visivi a quello più generale che riguarda la modalità di rapportarsi dell’individuo nei confronti dell’ambiente esterno come pure dell’ambiente interno. L’attitudine di cogliere la realtà emergente, l’elemento che è più carico di significato e di energia in un preciso momento, consente all’individuo sano di concentrare sullo stesso le sue facoltà di attenzione, di mobilizzare le strategie utili a realizzare con lo stesso elemento uno scambio vantaggioso di dare-avere ed in definitiva di assorbire gli elementi di cui abbisogna per poi muoversi verso altre realtà che successivamente si saranno caricate di maggiori valenze energetiche. Tale operazione presuppone ovviamente la contemporanea capacità di lasciare sullo sfondo gli elementi meno significativi ed ottenere quindi quella concentrazione energetica che unicamente consente di finalizzare utilmente le operazioni di pensiero ed i comportamenti destinati al raggiungimento di obiettivi specifici.
Il ciclo della gestalt
Con questo termine, detto anche (con termine limitativo) ciclo della soddisfazione dei bisogni, si indica il continuo processo di emergenza e scomparsa delle diverse gestalt nell’interazione individuo/ambiente. Parafrasando un detto zen possiamo evidenziare come l’individuo (ma il discorso vale anche isomorficamente per organismi biologicamente meno evoluti o anche per organismi sociali) è esposto ad un susseguirsi di esigenze o desideri che acquistano periodicamente maggiore rilevanza rispetto ad altre: “al se vuoi andare, allora va; se vuoi fermarti, siediti; se hai fame, mangia; se sei stanco, coricati e dormi”. Sembra facile, ma in realtà non lo è. Lo sottolinea un’altro aforisma zen che dice: “se ho fame mangio. Non è questo un miracolo?”. A pensarci bene, infatti, quante volte mangiamo pur non avendo fame o non mangiamo pur avendone? Il dilagante problema della bulimia/anoressia, come anche dell’alcolismo e della tossicodipendenza solo per fare qualche esempio, non esisterebbe se effettivamente il ciclo dei bisogni fluisse in modo armonico in un’osmosi funzionale tra bisogni dell’organismo e risorse ambientali. Per tale motivo, alcuni Autori (P. Goodmann, J. Zinker e M ed E. Polster) hanno cercato di approfondire più in dettaglio i meccanismi del suo funzionamento come delle sue interferenze. Nello schema qui riportato, che noi applicheremo per fare un esempio al bisogno alimentare, vengono evidenziate le seguenti fasi: – sensazione. Una sensazione diffusa e non ancora identificata si attiva nel nostro organismo, nel nostro caso a prevalente localizzazione epigastrica, e ci mette in preallarme rispetto alla necessità di assumere cibo; – consapevolezza. Tale sensazione acquista progressivamente i connotati del la fame nella misura in cui noi possiamo metterla adeguatamente a fuoco. Questo non avviene, notoriamente, se interferiscono meccanismi interferenti (come può avvenire ad esempio nell’anoressia) o per manza di contatto e attenzione per le proprie esigenze corporee; – mobilizzazione o energizzazione. Alla presa di coscienza segue, sempre che non ci siano meccanismi ostacolanti, la fase della mobilitazione delle energie e della articolazione di una strategia coerente con l’obiettivo identificato. Anche questa fase può essere soggetta ad elementi disfunzionali come presenza di inibizioni di vario tipo carenza di capacità progettuale; – azione. A questa (che spesso viene associata alla precedente) segue la messa in atto di comportamenti tesi quindi a mettere in atto un comportamento teso al conseguimento di quanto richiesto per soddisfare il bisogno (gestalt) emergente. Una carenza della spinta ad-gressiva può interferire negativamente specie quando il conseguimento dell’obiettivo implica una maggiore mobilizzazione di energie da parte del soggetto; – contatto. Il conseguimento dell’obiettivo consente la assimilazione e quindi il soddisfacimento del bisogno. In certi casi possiamo assistere ad una mancanza di soddisfacimento pur in presenza dell’oggetto richiesto (per problematiche collegate al tema dell’invidia, della voracità, del masochismo etc.); – distacco. Al soddisfacimento segue una fase di disinteresse per l’elemento precedentemente ricercato e la disponibilità per l’emergenza di un nuovo ciclo (il desiderio di riposo, di socializzare, di muoversi o altro). In certi casi il distacco non è agevole (fissazioni orali, problemi con lo svincolo, insicurezze etc.). A queste fasi, qui riferite in modo assai stringato, vengono anche collegate le diverse disfunzioni del Sé, di cui si dirà più avanti. La sintesi richiesta a questa presentazione non ci permette tuttavia di addentrarci in tali aspetti più dettagliati.
Aggressivita’ e assimilazione
Si salda a questa concezione il concetto di aggressività, intesa in senso etimologico come capacità di “ad-gredire” (dal latino adgredior: andare verso) un oggetto di desiderio o comunque un obiettivo che il soggetto mette a fuoco selezionandolo dalla multiforme congerie di elementi che costituiscono il campo percettivo di fondo. L’incapacità di far emergere da un campo una figura su cui concentrare la propria attenzione ed energia rappresenta un frequente motivo di insuccesso a livello esistenziale le cui origini andranno opportunamente investigate nella valutazione diagnostica e nel lavoro clinico che da questo può derivarne. Come già si è accennato, Perls sviluppò nella sua opera Ego, Hunger and Aggression il tema dell’istinto alimentare vedendo nell’incorporazione di cibo il paradigma di base di futuri modelli di relazione con l’ambiente. Il processo nutritivo prevede infatti che il soggetto introietti il cibo e lo assimili, nel senso etimologico di renderlo simile a sè, per avvalersene compiutamente. Se così non fosse, infatti, il materiale resterebbe indigerito. Tale digestione contempla tuttavia la completa distruzione del materiale ingerito e la conseguente operazione di utilizzo degli elementi nutritivi nonchè espulsione delle parti non utilizzabili. Tale operazione, diversamente da quanto sostenuto da Abraham e da altri psicoanalisti che si sono occupati della fase orale, non implica necessariamente una valenza sadica collegata alla dentizione. E’ nella natura delle cose che il processo assimilativo comporti la distruzione-incorporazione del materiale introiettato. Se tale paradigma risulta apparentemente ovvio per quanto riguarda il comportamento alimentare, lo è meno se trasposto sul versante emozionale o cognitivo. Ci troveremo spesso, infatti, in situazioni in cui anche i processi di apprendimento vengono ostacolati dalla difficoltà del discente a fa proprio (assimilando) il materiale ricevuto concedendosi la possibilità di rifiutare (evacuazione o rigetto) del materiale ritenuto inutile o dannoso. L’incapacità di attivare tale funzione digestiva e discriminativa comporterà una incertezza nei confini dell’Io (Ego boundaries) e situazioni di inevitabile malessere, come meglio verrà esposto nella sezione riservata alla Teoria del Sé.
Morfogenesi e adattamento creativo
Tutti i fenomeni vitali appaiono, in quest’ottica, come espressione di questa alternanza tra momento anamorfico, in cui una realtà emerge in figura da uno sfondo più indifferenziato, ed a questo ritorna, dopo essersi definito, in-dividuato, nella fase catamorfica in cui si dissolvono, si disgregano gli elementi di differenziazione per ritornare ad uno stato di quiescente dissoluzione. A questo processo segue un nuovo processo morfogenetico, una nuova gestaltung e così via nel perenne fluire, nel panta rei (eracliteo) del continuo divenire e dissolversi. Vivere significa quindi essere partecipi di questa dinamica del perenne divenire, fatto di alternanza tra creazione e distruzione, tra costruzione e dissolvenza, tra movimento sintropico ed entropico. Anche nel lavoro clinico si tratterà di accompagnare il processo in atto nel suo naturale evolversi. Tale processo potrà avere per oggetto un legame genitore figlio (c’è una prima fase in cui va favorito l’attaccamento e la costruzione del legame come una seconda in cui lo stesso va allentato per favorire il processo differenziazione e di “individuazione” per usare un termine caro a Jung), un rapporto di coppia (fasi di nascita e strutturazione della relazione e fasi in cui attenuare un’angoscia abbandonica che impedirebbe lo scioglimento di una relazione non più funzionale), uno stato di malattia (ci sono fasi in cui è necessario mobilitare tutte le risorse disponibili per lottare contro la malattia ed altre in cui accettare uno stato morboso non più guaribile ed anzi prepararsi alla morte).
Il come e il che cosa
L’interesse per il “come” un processo si evidenzia prima del “perché” e delle cause più o meno remote che lo giustificano, evidenzia un’attitudine volutamente miope che ci consente di stare a contatto con ciò che è evidente se solo abbiamo occhi ed orecchi per occuparci dei cosiddetti “fenomeni di superficie”, di ciò che in modo solo ingannevolmente ovvio si manifesta se solo la nostra attenzione non è polarizzata dai disperati tentativi di forzare a priori i dati emergenti (o fantasticati) entro gli angusti ed immutabili schemi mentali che la paura del sempre nuovo e mutevole ci porta ad accumulare ed a custodire come divine tavole della legge. Di qui ancora l’attenzione per il sintomo, la gestualità, la postura, il tono di voce oltre che il contenuto del messaggio verbale (così spesso incongruenti tra loro ed espressione quindi di aspetti scissi della personalità) per ciò che appare prima che per ciò che è nascosto (noumeno o contenuto inconscio che dir si voglia a seconda delle chiavi di lettura) in definitiva al “come” un fenomeno si esprime prima che al “che cosa” lo stesso significhi o sottenda. L’attenzione al fenomeno, se profonda e consapevole, produce il risultato paradosso di metterci in contatto con l’essenza che lo sostiene, come in natura non vi è forma che non esprima una struttura, una gestalt, appunto. Penetrante al proposito è l’espressione di Perls ”Coltiva al contrario l’attitudine a cogliere l’essenza dei fenomeni, la struttura intrinseca delle cose, la gestalt, di intuirne fuggevolmente l’eternità del messaggio che si nasconde e si rivela insieme nel fenomeno, nel segno, nelle tante riverberazioni della realtà rinviando in questo a quanto Eraclito accenna a proposito del logos”.
Il continuum di consapevolezza
Il lavoro sulla consapevolezza rappresenta probabilmente la caratteristica più peculiare dell’approccio gestaltico. Il luogo privilegiato della conoscenza, infatti, è il soggetto che si rivolge al terapeuta in una fase iniziale nella quale non ha ancora sviluppato la capacità di coltivarla in modo autonomo ed efficace. Il termine di awareness, consapevolezza, viene preferito a quello di insight o presa di coscienza per sottolineare l’aspetto olistico, e quindi non solo intellettivo, dell’atto conoscitivo stesso che, come abbiamo visto, implica generalmente anche una componente immaginale, emozionale e sensopercettiva. “La nostra tecnica per sviluppare l’autoconsapevolezza consiste nell’estendere in ogni direzione le aree della attuale consapevolezza. Per riuscire in questo è necessario portare alla vostra attenzione le vostre esperienze che preferireste evitare e non riconoscerle come vostre. In seguito verrà lentamente alla luce l’intero sistema dei blocchi su cui si basa la vostra abitudine, l’abituale strategia di resistenza alla consapevolezza” (F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, 1951, 91). Sempre per Perls (1947, 219) “L’autorealizzazione è possibile solo se la consapevolezza del tempo e dello spazio penetra ogni angolo della nostra esistenza; fondamentalmente essa è il senso dell’identità, l’apprezzamento della realtà del presente”. Educarci quindi – per poter aiutare altri a farlo – ad essere nei propri gesti, nel proprio corpo, parola, sentimento. Assumerci tutte le espressioni del nostro modo-di-essere-nel-mondo anche nei particolari apparentemente irrilevanti. Lapsus e atti mancati sono frutto di comportamenti inconsapevoli, di qualcosa di noi che ci agisce al di fuori della nostra consapevolezza. Non ci appartengono quindi compiutamente. Il lavoro sta quindi nel re-owning nel riappropriarci consapevolmente di parti scisse, di pezzi del nostro Sé che alieniamo. Ma perchè ci disappropriamo di parti del Sé? Paura, remora giudicativa, desiderio rimosso, abitudine all’evitamento alla inconsapevolezza. Tutti atteggiamenti che ci estraniano da noi stessi, che ci mutilano di parti di noi e ci impediscono di essere noi stessi compiutamente. Non solo nelle parti cosiddette buone ma nell’essere noi stessi qui-ed-ora per quello che effettivamente siamo. Il lavoro sulla consapevolezza prevede più livelli di indagine:La componente corporeo-cenestesica Coerentemente al taglio esperienziale del lavoro gestaltico, si tende a privilegiare, almeno inizialmente, il versante corporeo per poi accedere a quelli più intellettivi. La dimensione corporea, coerentemente ad un’impostazione comune sia alla fenomenologica che dello Zen, non è qualcosa di scisso dalle facoltà mentali. Si tratta in altri termini di risalire da un corpo che abbiamo (in tedesco: korper) ad un corpo che siamo (leib). “Noi siamo i primati-organismi, noi (cioè qualche misterioso io), non abbiamo un organismo” (Perls, 1969, 16).La componente senso-percettiva L’indagine delle senso-percezioni che un individuo coglie con carattere di priorità rappresenta un’interessantissimo strumento di accesso alla sua percezione del mondo. Come coerentemente ricorda Perls (1947, 213). “La percezione è un’attività e non un atteggiamento puramente passivo” . Attraverso il filtro selettivo con cui ognuno dà priorità ad alcuni elementi rispetto ad altri è possibile risalire alla particolare visione del mondo che ognuno, più o meno consapevolmente, coltiva e da questa risalire alle eventuali preclusioni nel percepire altre realtà e, da queste ancora, ai fattori a cui ricondurre la strutturazione di tali preclusioni.La componente emozionale L’approccio gestaltico, anche in modo spesso esagerato e stereotipo, viene associato con una peculiarità di intervento sul versante emozionale più che cognitivo. In effetti, anche nell’espressione del suo fondatore, la stessa “appare una via al risveglio emozionale, più breve e superiore a quella costituita dal comune discorso colloquiale, e superiore alla tecnica delle libere associazioni (Perls, 1947, 218). La tonalità emozionale che accompagna altri vissuti (sensazioni, ricordi, immagini oniriche) viene regolamente investigata da un terapeuta gesatltico al fine di dare spessore olistico al vissuto riferito.La componente cognitiva Il lavoro sulla consapevolezza cognitiva non è dei più semplici. Come dice S. Aurobindo “sono i pensieri che ci pensano” . Alcune percezioni sul mondo, recentemente definiti anche basic beliefs, precedono la consapevolezza stessa che noi in età precoci possiamo avere sulla strutturazione di tali convincimenti di fondo. Il nostro modo di vedere il mondo si identifica talmente con questi filtri cognitivi da farci ritenere che siano il nostro modo di pensare. Solo con grande applicazione potremo scoprire che in realtà tali pensieri spesso non ci appartengono e che li abbiamo mutuati da altri in modo acritico ed inconsapevole.
Libere associazioni e concentrazione
Perls prende le distanze dall’enfasi posta da Freud sul concetto di inconscio sottolineando come la possibilità di valorizzare il linguaggio corporeo e immaginativo offre ampie possibiità di accesso alle parti scisse in quanto affioranti comunque e quindi visibili se solo siamo allenati a coglierle: “Nulla è mai veramente represso. Tutte le gestalt rilevanti emergono, esse sono la superficie, esse sono evidenti” (F. Perls, 1969, 241). Tale diversificazione teorica comportò anche una modifica a livello metodologico nel senso di trascurare la tecnica delle libere associazioni a favore di una metodica basata essenzialmente sul non evitamento del nucleo rimosso a cui Perls dette il nome di concentrazione. “Questo saltare da una figura all’altra caratterizza la persona che, anche nella vita è instabile, irrequieta, incapace di concentrarsi (F. Perls, 1947, 213)”. Ne consegue che l’orientamento terapeutico deve tendere a contenere i meccanismi di evitamento e a sostenere un lavoro di focalizzazione sulla gestalt ansiogena. Il rischio, per dirla con Perls, è infatti che la associazione libera si trasformi in “libera dissociazione” in cui saltando di palo in frasca si può perdere il filo unificante, la gestalt che dia significato ai frammenti, il disegno in cui i pezzi del puzzle trovino la loro com-posizione ed il loro significato. Al di là di tale enfatizzazione è d’altronde innegabile che il concetto di rimozione dalla sfera della coscienza, e quindi di inconscio, continua a far parte del bagaglio sia terorico che applicativo della Gestalt. In tempi recenti si anzi assistito ad un recupero anche esplicito, specie ad opera di Claudio Naranjo, dell’uso della libera assciazione usata non tanto in alternativa quanto in modo complementare a quello della concentrazione.
Dal girare attorno all’attraversare
Con il termine aboutism (intornismo), Perls indicava la frequente tendenza dgli esseri umani a non affrontare direttamente alcuni aspetti della vita, specie quelli che ci procurano più ansia, ma di girargli attorno. A ben vedere, gran parte dei meccanismi di difesa, di cui anche Freud si è occupato, hanno a che fare con l’attitudine evitativa (negazione, rimozione, spostamento etc.). Il lavoro sulla consapevolezza, che si propone come superamento del meccanismo evitativo, non è quindi ovvio come può apparire ad una considerazione sprovveduta ed incontra diversi tipi di difficoltà (descritte anche dalle discipline focalizzate sulle pratiche meditative) alle quali l’approccio gestaltico cerca di far fronte. Per dare la parola a Perls (1947, 201) “l’evitamento è la caratteristica principale della nevrosi ed è ovvio che la concentrazione è il suo giusto apposto … Ma, si tratta naturalmente di quella concentrazione sull’oggetto che, in accordo con la struttura della situazione, richiede di diventare figura. In parole semplici: dobbiamo affrontare i fatti. La psicoterapia significa aiutare il paziente ad ascoltare quei fatti che nasconde a se stesso”. Al di là delle aspettative forse eccessive che il Padre della Gestalt attribuiva a questa attitudine è innegabile il processo di cambiamento che attraverso l’esercizio della consapevolezza si determina nell’individuo. Il prezzo è ovviamente connesso all’emergenza di contenuti sgradevoli. “Spesso è necessario passare attraverso l’inferno e non girargli “attorno” (1947, 241). In tale indicazione di percorso si evoca il paradigma del processo autoconoscitivo che viene emblematicamente rappresentato nel racconto di Edipo, l’eroe che non si fermò di fronte al rischio del “conosci te stesso” sino alle sue ultime conseguenze, come anche nel percorso dantesco che prevede la discesa sino al più profondo degli inferi per poi preludere all’ “indi venimmo a riveder le stelle”. Si tratta infatti di entrare nei buchi neri della coscienza, da cui maggiormente tendiamo istintivamente a rifuggire. ‘Un compito molto arduo, uguale in difficoltà solo all’allenamento al silenzio interiore, è l’attenzione ad uno scotoma mentale” (Perls, 1947, 241).
Dal sostegno ambientale all’autosostegno
Tale forma di attraversamento può risultare talmente angosciosa da non risultare praticabile da pare di un soggetto se non con l’aiuto di un compagno di viaggio dotato di quelle doti di sensibilità, conoscenza ed esperienza personale del percorso di cui si presume sia dotato colui che si pone come accompagnatore. Si riassume in questo paradigma non solo la figura di Virgilio nel percorso dantesco, ma anche l’essenza del viaggio sciamanico. Da questo personaggio, generalmente un personaggio che ha attraversato lui stesso esperienze di morte o di malattia, ci si aspetta infatti la capacità di entrare in una dimensione altra dove possa trovare quei nessi di significato capaci di dare spiegazione di un ordine alterato e prefigurare quindi il rimedio. Fondamentale, in quest’ottica, non è quindi tanto la capacità del terapeuta di dare indicazioni dall’alto della sua posizione di conoscenza quanto la sua capacità di entrare nelle parti oscure della coscienza del paziente ed uscirne possibilmente con un elemento di chiarificazione esplorato congiuntamente. La “ferita del terapeuta”, se ovviamente elaborata attraverso il suo stesso percorso di crescita, rappresenterà, come asserisce Jung, lo strumento principale di condivisione, di sim-patia (termine che Perls preferiva a quello di em-patia sottolineando l’attitudine alla partecipazione più che alla immedesimazione) e di capacità di accompagnamento. In realtà, il processo psicoterapeutico, in quanto esperienza riparativa secondo il paradigma di Ferenczi, di qualcosa che presumibilmente non ha funzionato nel processo educativo (inteso etimologicamente come e-ducere, come accompagnamento da una condizione infantile ad una condizione adulta) contempla sia la riedizione di una funzione materna che paterna. Dando la parola a B. Simmons “Fritz individuava due funzioni necessarie nel ruolo terapeutico: quella di incoraggiamento e quella di frustrazione. L’incoraggiamento che è un atteggiamento “materno”, comunica al cliente che Lui può; la frustrazione che rappresenta un atteggiamento più “paterno” fa capire al cliente che Lui deve… Naranjo trasforma questa constatazione in una classificazione delle tecniche repressive ed espressive, ossia interventi che lo spingono ad un contatto più attento e dettagliato con il presente. Anche se riduttiva, questa utilizzazione della visione di Perls facilita la comprensione delle diverse possibilità di interventi terapeutici” (Simmons B, 1973, 9)
Il radicarci nel qui ed ora
Lungi dall’assicurare la felicità, la conoscenza può semmai favorire una profonda trasformazione dell’esperienza della vita pur nelle sue inevitabili componenti difficili e, forse, tragiche. Il mito onnipotente che la conoscenza possa esorcizzare il dolore ricorre nei più alti insegnamenti filosofico-religiosi (Socrate, Buddha) e si presenta in qualche modo anche nella riedizione freudiana nel percorso conoscitivo come cura dalla nevrosi. In realtà spesso, per usare un aforisma antico, “qui auget scientiam dolorem” (chi accresce la conoscenza accresce il dolore). Quello che indubbiamente può cambiare è la qualità della sofferenza stessa che da nevrotica e parzialmente inconsapevole può divenire più consapevole e più tollerabile se congiuntamente si è associato un processo trasformativo e di crescita dell’individuo. L’enfasi su questo punto giustifica la dizione di “continuum della consapevolezza” che generalmente viene attribuito a questa attitudine nel lavoro gestaltico. “Mantenere il vostro senso della realtà: uno la coscienza intatta che la vostra consapevolezza esiste qui e ora; cercate di rendervi conto del fatto che siete voi a vivere l’esperienza: due siete voi che agite, osservate, reagite, resistete; che prestate attenzione a tutte le vostre esperienze, quelle “interne” come a quelle “esterne”, quelle astratte e quelle concrete, quelle che tendono verso il passato e quelle che tendono verso il futuro, quelle che “desiderate”, quelle che “dovete”, quelle che semplicemente “sono”, quelle che intraprendete deliberatamente, quelle che sembrano avvenire spontaneamente; nel corso di ogni esperienza, senza eccezione alcuna, ripetetevi: ora sono consapevole che”…. (F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, 1951, 95).
Passare all’azione
Nel paradigma dell’arco diastaltico (il movimento della gamba cioè che succede immediatamente alla percussione della struttura neurotendinea della rotula), come anche Perls ricorda, compare lo stimolo e poi la risposta. In un crescendo di operazioni sempre più evolute, in misura della complessità dell’organismo vivente e delle funzioni interessate, si avrà una elaborazione sempre più articolata dello stimolo prima di avere una risposta. La stessa sarà sempre meno automatica e sempre più consapevole e discriminativa. La salute dell’organismo nella interazione con il suo ambiente dipenderà quindi dalla capacità di riconoscere ed elaborare degli stimoli dal mondo esterno ma anche dalla capacità di evocare risposte efficaci. Alla prima fase più recettiva dovrà seguire quindi una fase più attiva nella quale l’organismo, presa coscienza degli elementi in gioco, elaborerà utili strategie di comportamento manipolativo sul mondo esterno. Dando la parola a Perls (1947, 268) “La cura richiede ovviamente di percorrere le seguenti tappe: dovete diventare non soltanto pienamente consapevoli di quelle di quale emozione, interesse o impulso state nascondendo, ma dovete anche esprimerlo con parole, arte o azione”. Il lavoro sulla consapevolezza nel presente è quindi un’occasione per una messa in azione che, contrariamente alla squalifica psicoanalitica per i comportamenti agiti all’interno del setting terapeutico, viene spesso sostenuta all’interno di una riscoperta autorizzazione ad esplorare moduli comportamentali diversi da quelli rigidi e ripetitivi a cui la rete dei divieti introiettati può averci abituati. Questo non implica, ovviamente, il sostegno ad ogni impulsivo acting out e la svalorizzazione del processo di simbolizzazione dei comportamenti, bensì il sostegno ad una più sinergica congruità tra vissuti ed i comportamenti che ad essi desiderabilmente possono corrispondere.
Il presente Il privilegio per la connotazione spazio-temporale riferita al presente (già sottolineata alcuni psicoanalisti tra cui Ferenczi, Adler, Reich e Jung nel valorizzare il dato esperienziale attuale oltre alle “ceneri archeologiche”) si giustifica per più ragioni convergenti: – è nel presente che di fatto ci interroghiamo sull’esistenza che, lungi dal potersi ipotizzare in termini generali ed astratti, si declina inevitabilmente nelle coordinate spazio-temporali in cui di fatto ci troviamo; – questo radicamento nel qui ed ora con il mio corpo-sensazioni-emozioni-pensieri che sono me (e non mie) mi permettono di verificare in concreto la qualità delle interazioni con l’ambiente (prima fra tutte quella caratterizzata dalla presenza del terapeuta, da un gruppo di persone, dagli elementi di corredo presenti) e di verificare di conseguenza attraverso il lavoro sulla consapevolezza quanto queste interazioni siano o non siano soddisfacenti e forse migliorabili; – il presente favorisce l’impatto, il contatto più diretto e im-mediato con le cose, le fantasie, le emozioni. La dimensione del passato o del futuro è spesso un modo per localizzare lontano da me situazioni e vissuti eludendo un confronto più diretto nella relazione Individuo/Ambiente; – il presente ancora come condizione per l’esercizio di una consapevolezza che non è destinata necessariamente ad identificare bisogni o lacune da colmare, ma più semplicemente a farmi assaporare il fluire dell’essere, delle sensazioni, pensieri, emozioni progressivamente svincolate dalle introiezioni persecutorie e doveristiche del se fossi e del dovrei; Il presente non significa ovviamente negazione del passato e del futuro quali dimensioni che nel presente conservano un autentico significato. Valga, per le tante citazioni riferibili al proposito, quello di Laura Perls: «Quanto esiste, esiste qui ed ora, il passato esiste ora come memoria, nostalgia, rimpianto, risentimento, fantasia, leggenda o storia Il futuro esiste qui ed ora nel presente attuale come anticipazione, pianificazione, saggio, aspettativa e speranza o timore o disperazione. La terapia della Gestalt lo assume tale e quale si presenta nel qui ed ora, non per come è stato o come potrebbe arrivare ad essere. E una focalizzazione fenomenologico-esistenziale nella misura in cui è esperienza e sperimentale» (L. Perls, 1992, 78). Interessante è lo stesso uso del presente come chiave di lettura di forme di sofferenza come, conseguentemente, di strumento di cura. “L’ansia – sostiene Perls (1969, 115) è la tensione fra l’ora e il dopo”.
La polarità dinamica
La dinamica della polarità trova nella concezione della Gestalt la sua evoluzione più radicale che, in qualche modo, va oltre la stessa concezione junghiana sulla sintesi degli opposti per la quale nella “personalità ombra” vengono infatti intravisti aspetti che vanno utilmente integrati nella personalità più consapevole per raggiungere una maggiore integrazione del Sé. La concezione polare rappresenta al contrario un elemento costitutivo primario della concezione gestaltica che risente non solo degli influssi di derivazione orientale, ma di rilevanti corrispondenze nel pensiero di Friedlander che, per Claudio Naranjo, rappresentò anche un ponte tra Nietzsche e Perls. In tale prospettiva “Apollo non poteva vivere senza Dioniso”, sintetizza genialmente Nietszche ne La nascita della tragedia. Nell’estrema negazione dell’altro-da-Sé, del diverso per antonomasia si apre la voragine della spaccatura e della malattia nella sua forma più disperata. Lo splitting della personalità conduce infatti a quella inconoscibilità tra le parti del Sé così acutamente colta dal neo-mito del dottor Jekhill e del mister Hyde e che, non casualmente, tanto successo ha avuto. Più che di polarità, inoltre, sarebbe opportuno parlare di multilarità (Zincker, 1978) intendendo con questo termine il procedere per coppie dinamicamente correlate: individuo/ambiente, figura/sfondo, mondo interno/mondo esterno, maschile/ /femminile, cosciente/inconscio, etc..
Concetti e immagini ovvero la dinamica tra o due emisferi A tema della polarità si collega l’interazione interemisferica che attualmente rappresenta un dato ampiamente acquisito. Rispetto agli approcci che privilegiano il linguaggio verbale e la analisi cognitiva, dette quindi dell’emisfero sinistro, si potrebbe considerare la Gestalt come appartenente prioritariamente a quello destro (Ginger, 1990, 204). In realtà, tale spostamento intende dare maggior rilievo ad una parte di noi che viene considerata “non dominante” e quindi trascurata (per inciso è anche quella deputata alla produzione onirica) anche se l’obiettivo finale sta in un equilibrio tra le due funzioni emisferiche. Puntuale F. Perls (1947, 213) “La maggior parte della nostra capacità mentale consiste in immagini e parole, l’inconscio ha più affinità con le figure, la mente conscia con le parole. Per raggiungere una buona armonia fra l’Io e l’inconscio dovremmo avere il maggior controllo possibile sulla nostra visualizzazione”. Come infatti è utile lavorare sulla corrispondenza tra pensieri ed immagini, così è utile saper evocare le immagini stesse magari a partire da emozioni, sensazioni o anche la esercizi attivatori, come si deriva da un altro passo. “Frequente è l’abitudine inconscia di escludere le immagini con l’aiuto della contrazione intensa dei diversi muscoli oculari. Le immagini riappariranno quando si rilassano tali contrazioni (Perls, 1947, 213). Una delle prerogative del lavoro gestaltico sta infatti nella evocazione immaginale, un atteggiamento che rappresenta più che una semplice tecnica e che si avvale ovviamente di metodi specificamente mirati a dare voce (o meglio immagine) ai contenuti di coscienza. L’affinamento di tale pratica consente di avere accesso ad una risorsa di grande valore anche in assenza di produzioni oniriche. L’identificazione con il contenuto immaginale, cui si associa generalmente una specifica tonalità emozionale, consente di lavorare sui processi primari in presa relativamente diretta e prima che tali contenuti vengano canalizzati attraverso filtri (spesso preconcetti) di carattere cognitivo che ineriscono i processi secondari.
Dall’interpretazione alla maieusi del percorso esperienziale “Sarò con te. Tu farai quello che ritieni necessario” soleva ripetere Perls (da Baumgardner, 1975, 41) specificando come “uno dei nostri principali obiettivi è quello di consentire al paziente di fare delle scoperte: scoprire, quando vuole, alcune parti di Sé e il suo potere, che sono per lui estranei e irraggiungibili” – e ancora – la scoperta è il centro del processo della crescita, l’essenza della psicoterapia. Il ruolo del terapeuta è quello di facilitare non di insegnare; di ‘essere con’ non di imporsi”. Essenziale in questo processo, affinchè il risveglio della coscienza sia reale – Perls lo chiamava il fenomeno della “ah, ah experience” – è che il vissuto si manifesti nella sua intrinseca dimensione olistica e non limitatamente ad una insight intellettivo, ad una possibilità di afferramento (ergreifen dei fenomenologi) del concetto. E nessun accadimento della coscienza può avvenire se non nel paziente. Sua deve essere, auspicabilmente, la scoperta. A lui conservare la gioia, seppure dolente a volte, della epifania, della autorivelazione del quid novi che dal fondo indistinto della coscienza emerge alla luce più definita e chiara dell’evidenza. Per favorire questo emergenza la pratica della interpretazione si presenta non sono inutile ma francamente controproducente. E’ come risolvere un problema di matematica ad un bambino che ha difficoltà ad organizzare il problem solving. Sostituirsi all’interessato, in questo percorso di ricerca, significa frustrare le potenzialità latenti di ricerca, di autonomizzazione, di gioia e di conquista di una verità che gli appartiene dal momento che concerne essenzialmente la sua verità, l’autenticità delle sue emozione e vissuti. La pratica dell’interpretazione, specie se usata in modo inopportuno, mira più a gratificare il narcisismo del terapeuta che ama sfoggiare la sua conoscenza e capacità intuitiva proponendola – se non imponendola – al paziente che non a promuovere una più adulta maieusi Non si tratta quindi di rivelare, novelli aruspici, le verità che riguardano le segrete cose della persona quanto di creare quelle condizioni favorevoli affinchè il processo dell’auto-svelamento e quindi, potenzialmente, dell’autoguarigione possa svilupparsi.
Intellettualismo e contatto diretto
Il tentativo di de-intellettualizzare un procedimento conoscitivo ha sempre un aspetto paradossale dal momento che la comprensione, comunque, implica il coinvolgimento della mente. Fenomenologia esistenzialismo, Tao e Zen rappresentano forse i tentativi più sistematici di superamento della dimensione intellettualistica della conoscenza. Non vi è dubbio, tuttavia, che il sapore di tale caratteristica può essere colto solo da chi ne possiede una diretta esperienza. Al di là di considerazioni di carattere filosofico e per restare aderenti al tema della psicoterapia “Nutrire una persona che soffre di un eccesso di intelletto e di un deficit di sentimento con ancor più intelletto, ad esempio le interpretazioni, è un errore tecnico. Per dissolvere un sintomo nevrotico nell’organismo di una persona si ha bisogno della consapevolezza del sintomo in tutta la sua complessità, non di un’introspezione intellettuale, né di spiegazioni” (Perls, 1947, 241). Ne consegue un procedimento terapeutico più orientato allo stare con il vissuto che non a trasporlo frettolosamente entri schemi concettuali. Scarna ed essenziale è la definizione di Perls “La nostra tecnica non è un procedimento intellettuale. La tecnica nuova sviluppata in questo libro è semplice in teoria: il fine è di riguadagnare il “sentire se stessi”, ma il raggiungimento di questo fine è, a volte, molto difficile”.
Il vuoto fertile
Questo concetto non è facilmente definibile. Dando la parola a F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, (1951, 94-95) “L’individuo capace di tollerare l’esperienza del vuoto fertile, sperimentando fino in fondo la propria confusione e che riesce a diventare consapevole di tutto quanto richiama la sua attenzione (allucinazioni, frasi interrotte, sentimenti vaghi, strani) avrà una grande sorpresa, vivrà probabilmente un’esperienza “Ah, ah!”; all’improvviso apparirà una soluzione, un insight fin ad ora inesistente, un lampo di comprensione o percezione”. In tale attitudine confluiscono evidentemente più elementi citati: la fiducia nei processi autoregolativi e autoplastici, l’impostazione maieutica e non intellettualistica. “La maggior parte delle persone crede di risolvere la confusione, le confusioni che appaiono sgradevoli, interrompendole con interpretazioni, speculazioni, spiegazioni e razionalizzazioni. E’ questa la struttura di molti nevrotici, particolarmente intellettuali” (F. Perls 1973, 92). Tale condizione rappresenta il risultato di un addestramento a cui, invero, troppa poca attenzione viene spesso dedicata anche in seno ai tradizionali corsi di formazione. “C’è una sola via attraverso cui possiamo contattare gli strati più profondi della nostra esistenza, ringiovanire il nostro pensiero e raggiungere l’intuizione (l’armonia del pensiero e dell’essere) “Il silenzio interno”. Prima di padroneggiare l’arte del silenzio interno, comunque, bisogna cercare di esercitarsi ad ascoltare i propri pensieri. Dopo aver padroneggiato l’ascolto interno, potrete procedere all’esercizio fondamentale, quello dell’allenamento del silenzio interiore (F. Perls, 1947, 225).
La teoria del Sé
Il termine self o Sé, per utilizzare il termine italiano che traduce in modo non soddisfacente quello inglese, e la teoria che a questo concetto si riferisce, rappresenta una specie di colonna vertebrale, riprendendo un’espresione di S. Ginger (1987, 215), un modello denso di implicazioni feconde e chiarificatrici. Ciò nonostante non può sfuggire come la Gestalt si sia inserita in modo insufficiente nel panorama scientifico culturale degli ultimi decenni e come pochi siano stati i contributi e gli sviluppi di rilievo seguiti alle straordinarie intuizioni ed alla altrettanto straordinaria opera di sintesi operata da Fritz Perls e dai suoi primi collaboratori. Dove la Gestalt ha prodotto frutti innovativi e fecondazioni è stato spesso al di fuori dell’ambito propriamente gestaltico, come giustamente sottolinea J. Marie Robine (1987). Importanti acquisizioni si sono avute inoltre nel campo dell’agire terapeutico attraverso l’integrazione di concetti e metodologie di lavoro derivate da altri orientamenti e tradizioni (in particolare dall’approccio sistemico nel lavoro focalizzato sulle relazioni individuo-ambiente familiare o sociale dalle tecniche di lavoro sul corpo e dalle pratiche di consapevolezza), mentre una vera evoluzione del patrimonio teorico, pur così vasto nei presupporti dell’impianto gestaltico, lascia a desiderare. Perls intende con il termine self, o Sé, una connotazione di sintesi rispetto alle tre funzioni che lo connotano – Es, Io e Personalità – e sottolinea come l’uso del pronome riflessivo esprime non a caso l’attitudine attivo-passiva della modalità-di-essere-nel-mondo di un organismo in perenne interazione con l’ambiente in cui è immerso. Attualmente assistiamo ad un vivo interesse per quella che viene chiamata la Psicologia del Sé intendendo con questa dizione filoni di ricerca assai distanti tra loro. E’ mio parere che molte delle intuizioni innovative che compaiono in questi lavori più recenti, trovino importanti premesse anticipatrici nelle pagine scritte da P. Goodmann (sviluppate su appunti di Perls) a proposito dei capitoli riguardanti la Teoria del Sé sul testo teorico di base Gestalt Therapy: Excitement and Growth in Human Personality del 1951.
Cosa si intende per self o Sé Il Sé, nella concezione della Gestalt, viene considerato innanzitutto come una funzione (non quindi un’istanza o un apparato psichico nel senso attribuito dalla Psicoanalisi all’Io o all’Es). Più in particolare è la funzione di adattamento creativo (F. Perls, F. Hefferline, P. Goodman, 1951, 433). L’adattamento creativo è il risultato di una complessa interazione tra un organismo ed un ambiente nel contatto reale che tra i due si stabilisce in un luogo ed in un tempo definito. Il Sé quindi, come del resto ogni entità socio/biologica, non può considerarsi in astratto, come un qualcosa di determinato, fisso e atemporale, ma solo in relazione al campo, all’ambiente o sistema al quale appartiene o con il quale comunque interagisce in un dato momento in cui viene preso in considerazione. A questa interazione viene anche dato il termine di contatto (Perls et al. ibid., 434). Il termine sottolinea un aspetto molto concreto, tangibile appunto di questa interazione. Sottolinea, in altri termini, un insieme di operazioni che si riferiscono sì a funzioni anche psichiche (si può avere un contatto visivo, emotivo, di pensiero), ma delle quali si vuole mettere prioritariamente in evidenza il fondamento organico, biologico. “Chiamiamo sé (conservo il minuscolo nella traduzione dall’inglese) il complesso sistema di contatti necessario per l’adattamento in un campo difficile. Si può considerare che il sé si trovi sulla linea di demarcazione dell’organismo, ma la linea di demarcazione stessa non è isolata dall’ambiente; essa è in contatto con l’ambiente, appartiene ad entrambi, all’organismo e all’ambiente (Perls et al. ibid, 436). E ancora (Perls et al. ibid, 436): “Nelle situazioni di contatto il Sé è il potere che forma la gestalt del campo; o meglio, il Sé è il processo della figura/sfondo nella situazione di contatto. Il senso di questo processo formativo, il rapporto dinamico fra figura e sfondo, è l’eccitazione: l’eccitazione è il sentire la formazione della figura/sfondo nelle situazioni di contatto, man mano che la situazione incompiuta tende a completarsi . In ultima istanza il Sé esiste laddove si verificano spostamenti nelle linee di demarcazione del contatto.” La scarsa fortuna avuta da questa teorizzazione, oltre alle motivazioni già citate, sta verosimilmente nell’estrema densità dei concetti e nell’intreccio reciproco degli stessi che non possono essere colti separatamente e in modo statico ma come un tutt’uno.
Aspetti del Sé e analogie con gli apparati psichici freudiani Mi riferirò solo in sintesi agli elementi costitutivi del Sé che, solo a titolo di menzione, sono l’Es, l’Io e la Personalità nei quali si evidenzia una chiara derivazione dai concetti della impalcatura concettuale freudiana. L’Es, infatti, rappresenta l’insieme più o meno indifferenziato ed irrazionale di pulsioni, eccitazioni organiche, tracce mnesiche relative al passato ed è fortemente connesso con la dimensione corporea. In sintesi può venire considerato il mondo interno nella vasta gamma delle accezioni psico/biologiche che a questo termine possono riferirsi. La Personalità rappresenta il sistema degli atteggiamenti assunti nei rapporti interpersonali. Tale immagine potrà essere più consona e funzionale al nostro modo di essere autentico o, al contrario, il risultato di di un certo numero di concezioni errate di noi stessi, di introietti, di ideali dell’Io di maschere etc. (Perls et al., 1951, 445). Questo avviene appunto nella personalità nevrotica dove si assiste ad una fissazione ad un passato immutabile in cui i vecchi schemi adattivi, pur non rispondendo più alle mutate esigenze dell’interazione con l’ambiente, si riproducono con un automatismo rigido e disfunzionale. L’Io rappresenta la funzione decisionale di scelta/rifiuto in risposta all’emergere di richieste e pulsioni provenienti dal mondo interno od esterno. L’esercizio di una intenzionalità sana, quindi, consisterà nella limitazione consapevole di certi interessi, percezioni e spinte in modo da potersi concentrare su altre, mentre quella nevrotica rappresenterà una serie di autointerruzioni nella possibilità di accondiscendere a stimoli di crescita e di cambiamento a causa di intoppi e di gestalt irrisolte. Queste sottrarranno l’energia necessaria per il passaggio all’azione e il soddisfacimento dei bisogni, l’appagamento dei desideri e delle spinte esplorativo-creative. In quest’ottica (Ibid., 271): “La psicopatologia è appunto lo studio dell’interruzione, dell’inibizione o di altre interferenze nel processo di adattamento creativo. E ancora: E’ a questa frontiera-contatto che gli eventi psicologici accadono. I nostri pensieri, le nostre azioni, i nostri comportamenti, le nostre emozioni rappresentano le nostre modalità di esperienza e di incontro di questi avvenimenti di frontiera”. Pur nella analogia con gli apparati dell’Es dell’Io e del Super-Io è fondamentale cogliere la differenza di impianto teorico nei confronti della Psicoanalisi. In questa, in realtà, la dimensione inconscia viene associata prevalentemente all’Es e quindi alle pulsioni libidico-aggressive e al principio del piacere. La dimensione superegoica, di converso, è all’insegna del principio di realtà e di una strutturale condizione repressiva nei confronti delle spinte istintuali. Tale conflittualità intrinseca, più che legittima considerato il clima culturale del tempo ed espressa con dovizia di considerazioni metapsicologiche da Freud nel Disagio della civiltà, viene superata da una concezione meno pregiudiziale sulla appartenenza di campo dei due apparati in conflitto (piacere-realtà). La progressiva focalizzazione sulla funzione mediativa dell’Io, tra istanze pulsionali e societarie, attraverso i contributi di A. Freud e di Hartmann e più in geneale della Psicologia dell’Io che appunto attorno agli anni ‘40-’50 avevano proposto una evoluzione della primitiva impostazione freudiana, nonchè il clima culturale postbellico americano, tutto proteso verso un’utopia di liberazione da vecchi schemi repressivi hanno senz’altro contribuito a creare quel clima culturale in cui poter riconsiderare il rapporto individuo/ambiente (Es/Super-Io, piacere/realtà) in senso meno contrappositivo e conflittuale. Questa visione consentì una essenzializzazione progressiva dell’impalcatura conoscitiva a favore di un’attitudine fenomenologicamente orientata e tesa alla valorizzazione nel qui ed ora delle risorse in concreto che l’individuo è potenzialmente in grado di cogliere dall’ambiente sempre che meccanismi di interruzione (legati alla sua storia personale più che ad una strutturale impossibilità a star bene) non si frappongano impedendo un’osmosi vitale tra realtà interiori ed esteriori.
Verso un modello rappresentativo del Sé
Il perchè detti concetti siano stati valorizzati così poco ed abbiano stimolato scarse evoluzioni ed approfondimenti successivi non è facile capire. Un elemento che, nella mia esperienza personale, è stato ricco di implicazioni evolutive ed ha rappresentato l’elemento di svolta nella riscoperta di questo impianto teorico è stato collegare detti concetti ed alcuni elementi accennati od impliciti ad un modello rappresentativo che, come vedremo, potrà significare di più di una metafora o di un fenomeno isomorfico. Mi riferisco alla possibilità di rappresentare il Sé, in una versione che considero preliminare, come una membrana cellulare . Questa rappresentazione non è nuova. Trova le premesse negli stessi riferimenti di Perls, di cui quello relativo alla pelle ho riportato, nonchè in allusioni più o meno significative di vari autori. Cito, fra tutti, quella di Serge Ginger che, accosta il fenomeno della frontiera/contatto tra l’individuo e il mondo alla funzione della pelle nell’individuo e a quello della membrana cellulare in un organismo unicellulare ravvedendovi dei parallelismi frappants con i temi sviluppati nella teoria del Sé (Ginger, 1978, 216). Tale analogia viene sottolineata con forza ed ampio corredo di riferimenti bibliografici anche da uno psicoanalista tra i più penetranti ed aperti degli ultimi decenni. Mi riferisco a Didier Anzieu che su questo tema ha pubblicato nel 1985 un libro dal titolo appunto L’Io pelle. Questa derivazione rappresenta la possibilità di ricondurre i tanti fenomeni biopsichici ad uno schema unitario ed elementare che fornirà un’utile griglia di collegamento tra tanti fenomeni attualmente considerati in modo disarticolato e poco organico. Una critica che, di primo impatto, può essere avanzata ad un procedimento di questo tipo è il pericolo di operare abusive estrapolazioni tra fenomeni qualitativamente distinti quali sono gli accadimenti biologici e quelli psichici. In realtà, sempre per citare Anzieu: “Uno dei principi fondamentali della psicoanalisi è che ogni attività psichica si appoggia su una funzione biologica. L’Io-pelle trova il proprio appoggio sulle funzioni della pelle”. Questo tipo di impostazione, comune a quanti si sono dedicati alla ricostruzione delle prime fasi del funzionamento psichico, è del resto condivisa dallo stesso Perls che non manca di ribadire, ad ogni piè sospinto, quanto le funzioni psichiche non possano in alcun modo essere distinte e scisse da una originaria dimensione organismica quale che sia il livello di funzionamento emergente (Perls et al., 1951, 436): “Il contatto consiste nel toccare, nel toccare qualcosa. Non si deve pensare al Sé come ad un’istituzione fissa; esso esiste ogniqualvolta e dovunque vi sia nei fatti un’interazione sulla via di demarcazione”. E ancora Anzieau: “L’esperienza si verifica ai confini tra l’organismo e il suo ambiente, fondamentalmente nell’epidermide e negli organi di risposta sensoriale e motoria “(ibid. 267). Tale impostazione, a ben vedere, rappresenta un’acquisizione strutturale del pensiero psicoanalitico e dello stesso Freud, seppure l’attenzione prevalente si sia orientata nei fatti a dare maggiore risalto ai contenuti mentali e fantasmatici degli apparati psichici anzichè alla loro inscindibile derivazione ed interconnessione con i presupposti biologici. A tale matrice biologico-organismica la Gestalt tende a ricollegarsi nel pensiero di Perls.
Le premesse freudiane sul concetto di barriera-contatto L’opera Progetto per una psicologia del 1925, Freud elabora una nozione di barriera/contatto (kontaktsschrank) che in seguito non utilizzerà più in alcuno dei suoi testi successivi. Vi si fa riferimento al tipico aspetto paradossale di una barriera che ferma o attenua il passaggio di informazioni come pure di struttura predisposta a rendere possibile il contatto ed il passaggio delle informazioni stesse. Anche se Freud non parla di involucro accenna tuttavia ad una struttura con due strati (Freud, 1895, Op. 2, 202). Uno deputato elettivamente alla funzione di protezione-separazione-barriera (in analogia alla membrana cellulosica dei vegetali, alla pelle o pelliccia degli animali) ed uno alla funzione di contatto/comunicazione (quello più interno e dotato di recettori diversificati e recettivi ad una gamma assai ampia di informazioni). La funzione di barriera/contatto viene ancora identificata sia in relazione a stimoli esterni che interni. Quest’ultima, definita periferia interna del corpo (korperinnerperipherie), ci mette in contatto con le pulsioni interne allorchè le stesse investono di energia (libidica) la superfici recettive evocando le rappresentazioni mentali. L’Io funziona quindi come un’interfaccia tra mondo esterno e mondo interno. Tale concetto viene ripreso in un passo di Al di là del principio del piacere del 1920 dove l’apparato psichico viene assimilato ad una vescicola protoplasmatica in cui il sistema percezione/coscienza, analogo all’ectoderma cerebrale, vi è descritto come scorza. La sua posizione al confine tra l’esterno e l’interno gli permette di ricevere le eccitazioni dai due lati (Freud, 1920, tr. it. Op. 9, 482). Puntuale, al riguardo risulta l’impostazione di Perls: “Il contatto è essere presente in ambedue le situazioni. Per semplificare: farcela è essere in contatto con la ZE (zona esterna, l’altro, l’ambiente); arretramento è entrare in contatto con ZM (zona mediana), o addirittura ZI (zona interna o zona del Sé)” (Perls, 1969, 121). Così si esprime in In and Aut the Garbage Pail a proposito di una situazione in cui sente di tener conto di esigenze interne, nella fattispecie la stanchezza per lo sforzo di applicarsi allo scrivere, ed esigenze esterne. A tali zone, esterna ed interna, Perls da la sigla di ZE e ZI. Fra le due individua la zona mediana, o ZM, che indica come mente. “In questa zona – precisa – immagino, parlo a livello subvocale, chiamato spesso pensare; ricordo, pianifico, recito. So che sto immaginando eventi passati. So che non sono reali, ma immagini. Se pensassi che fossero reali sarebbe un’allucinazione, cioè incapacità di distinguere la realtà dalla fantasia. Che è il sintomo principale della psicosi”.
Contatto e operazioni di confine
Al di là della carente sistematizzazione teorica, resta l’originalità della intuizione di fondo che, nella sua apparente elementarità, offre tuttavia una traccia di diagnosi-terapia centrata su quella che può legittimamente presentarsi come l’essenza dell’intervento psicoterapico stesso: la valutazione delle interferenze ed il sostegno a funzionali operazioni di confine nell’interazione individuo/ambiente, dando a quest’ultimo, ovviamente, tutto il suo significato pleniore non solo di ambiente fisico, ma di relazioni interpersonali, di sistema di valori, di norme e di significati in cui a vari livelli l’individuo è immerso. Tale confine, inoltre, non riguarda soltanto l’interfaccia che lo connette al mondo esterno, ma anche quella che lo connette con il mondo interno. L’Io/mente (sede della consapevolezza, del pensiero riflesso, delle operazioni di memorizzazione/proiezione nel futuro, delle scelte di assimilazione/alienazione) si trova quindi a muoversi (a fare lo shuttle o spola, come viene detto altrove) all’interno di una interfaccia e ad operare le scelte di mediazione all’interno di una polarità collegata i due opposti confini di interazione. Per questo motivo, personalmente, preferisco parlare di duplice contatto (mondo interno/mondo esterno), come chiave di volta per significare il costante lavoro di adattamento creativo dell’individuo-organismo nei rapporti con l’ambiente non solo esterno, ma anche interno. E’ propriamente all’interno di questa funzione mediativo/creativa che si dispiega la gestaltung, la proprietà cioè di inventare sempre nuove forme adattive, di originali combinazione di elementi in gioco e di configurare nuove soluzioni al mutevole declinarsi degli elementi spazio-temporali del reale-oggettivo nell’incontro con il reale-soggettivo. L’insieme delle funzioni Io, Es (mondo interno) e Personalità (mondo esterno) esprime la funzione di frontiera/contatto nel suo insieme cui diamo per convenzione il termine di Sé.
La membrana-Se’ e le sue funzioni
Dove Freud, ed anche Perls, si fermano, in realtà, è nell’individuare come preminenti i fenomeni di frontiera/contatto nell’interazione individuo/ambiente, senza tuttavia dare al fenomeno la sua configurazione ultima e conseguente: quella di richiamare più esplicitamete il concetto di membrana-pelle e cioè di una entità che non rappresenta solo una metafora, una possibile rappresentazione, ma un reale modello epistemologico, una autentica premessa organismica delle modalità di interazione/contatto tra un individuo, quale sia il suo livello evolutivo, e l’ambiente in cui si muove (Zerbetto, 1991, 109). E’ come se della membrana cellulare – che per trasposizione sul versante psichico chiamiamo Sé – si osservassero le funzioni in un segmento particolare perdendo di vista la sua configurazione generale che definisce essenzialmente i rapporti di distinzione/comunicazione dell’organismo con l’ambiente in cui è immerso. Ci si ferma a studiare i contenuti o alcune modalità operazionali di questa funzione biologica (che diventerà anche psichica attraverso stadi progressivi di sviluppo del sistema economico di rappresentare i dati di realtà imparando a manipolare rappresentazioni, simboli e concetti anzichè oggetti reali) senza vederne l’aspetto non meno importante di contenitore. In realtà, sempre per citare Freud da “l’Io e l’Es” (Freud, 1923, tr. it. 9, 400) “l’Io deriva dalle sensazioni corporee, soprattutto da quelle che provengono dalla superficie del corpo. Lo si può considerare come la proiezione mentale della superficie del corpo… (e ancora) L’Io cosciente è prima di ogni altra cosa un Io-corpo (Korper-Ich)”. Puntuale il commento di Anzieu (1985, 108) che ne deriva come: “La coscienza appare così alla superficie dell’apparato psichico, meglio ancora, essa è questa superficie”. Una rappresentazione di tale tipo non può stupire, ed anzi trova una puntuale conferma embriogenetica, se si pensa che il sistema nervoso altro non è che una derivazione dal primitivo foglietto germinativo dell’ectoderma. Tutti gli organi di senso, nonchè la vasta gamma di sensibilità possedute dall’apparato cutaneo, parimenti, sono delle differenziazioni dello stesso foglietto germinativo che si specializzano nel cogliere determinate energie vibrazionali (luce, suono), composti chimici (sapori, odori) vibrazioni, pressioni fisiche, calore, stimolazioni dolorose, etc (Zerbetto, 1991, 118). Tutto lo sviluppo del sistema nervoso, centrale e periferico, va considerato, in quest’ottica, come un sofisticato apparato di interconnessione ed elaborazione delle afferenze provenienti dal mondo esterno ed interno. Tra questi due mondi, o ambienti, la funzione elaborativa della psiche dovrà rinvenire quelle corrispondenze che offrano maggiori possibilità di incontro e contatto (se valutate come positive alla crescita dell’organismo) o, al contrario, quelle difese che rappresentino una valida barriera protettiva (se valutate negativamente). Tale perimetro/contenitore, sede di percezioni e di consapevolezza, non è ovviamente un’entità statica, ma plastica, elastica, percorsa da attivazioni energetiche mutevoli e rispondenti ad attivazioni di campo esterno ed interno secondo il modello della dinamica figura/sfondo, della autoregolazione organismica, della proprietà di riorganizzazione autoplastica della materia in generale e delle strutture neuronali in particolare secondo un’impostazione propria della concezione gestaltica e che è stata ripresa e suffragata da fondamentali contributi neurofisiologici e di teoria della conoscenza da scuole di pensiero recenti (Eccles J., 1977, Freeman W, 1981, Maturana H. e Varela F., 1984, Prigogine I., 1984, Edelman G., 1988, etc.). Gli stessi orifizi: bocca, ano, vagina (e pene in quanto aspetto estroflessivo di un corrispondente aspetto introflessivo rappresentato dalla guaina vaginale) così approfonditamente investigati nell’impostazione freudiana e ripresi da E. Glower neLa nascita dell’Io (tr. it. 1970), altro non sono che vie privilegiate di comunicazione interno/esterno che vengono attivate elettivamente in fasi particolari della vita dell’individuo. Si presentano cioè come localizzazioni di sovrainvestimento energetico, come figura emergente dallo sfondo dell’eccitazione diffusa e distribuita ubiquitariamente sulla superficie di contatto dell’intero organismo (membrana cellulare o pelle nel caso di un organismo filogeneticamente più evoluto). L’Io-pelle, per usare il termine introdotto da D. Anzieu, o Sé, per usare il termine gestaltico, costituisce la premessa, il veicolo ed il contenuto stesso di quel senso di identità-differenziazione (nei due livelli biologico e psichico tra loro intimamente interconnessi anche se a qualche livello distinguibili) che troviamo definito e a rilievo nell’individuo adulto e sano e, al contrario, precario, incerto, sfocato nell’individuo ancora in formazione o nevrotico. Se infatti ci riferiamo alla teoria del Sé, delle modalità cioè che contraddistinguono il modo-di-essere-nel-mondo di un organismo-individuo osservato, per come viene presentata da P. Goodman, troviamo come l’attenzione viene posta specificamente sui cosiddetti fenomeni di confine tra lo stesso, appunto, ed il mondo con cui interagisce. Tali modalità interattive sono state raggruppate in un numero limitato di possibilità osservabili e che, notoriamente, nel linguagio della Gestalt sono essenzialmente: la confluenza, l’egotismo, la introiezione, la proiezione, la retroflessione. e la proflessione L’egotismo, in realtà, viene trascurato sia da Perls, che da Latner (1972) che dai Polster (1986), mentre viene evidenziata da questi ultimi la deflessione. Tali modalità di interazione organismo/ambiente sono state variamente denominate dai diversi Autori. I termini più correnti sono di meccanismi nevrotici o perturbazioni nevrotiche alla frontiera-contatto (F. Perls), perdita della funzione Ego (P. Goodmann), resistenze (E. e M. Polster), disordini del self o interferenze nella consapevolezza (J. Latner), interruzioni (J. Zinker), meccanismi nevrotici di evitamento (M. Petit). Personalmente, dopo essermi confrontato a lungo con le stesse difficoltà, mi sono ritrovato a mio agio con il termine didisturbi della funzione di contatto laddove quest’ultima è sinonimo di Sé. Laddove non si voglia enfatizzare l’aspetto disfunzionale, parlo di funzioni del Sé o operazioni di membrana attribuendo a quest’ultima, ovviamente, un’accezione più ampia di quella riservata ad un organismo unicellulare (Zerbetto, 1991, 131). Rifacendoci infatti alla tripartizione proposta da F. Perls in Zona Interna, Esterna e Mediana, propongo il completamento dello schema grafico che possiamo derivarne sotto forma di una figura delimitata da un perimetro che la definisce nella sua interezza. Ovvio ed intenzionale appare l’accostamento di immagini con un organismo unicellulare provvisto di membrana. L’immagine, come ho accennato, non è fine a se stessa. Può infatti costituire un valido supporto per meglio rappresentarci i fenomeni di interazione organismo/ambiente, cui precedentemente abbiamo fatto cenno, e che possiamo ridefinire funzioni di membrana o del Sé (Zerbetto, 1991, 131). Personalmente preferisco riferirmi al concetto di membrana, anzichè a quello di pelle privilegiato da Anzieau, dal momento che la prima rappresenta la struttura originaria di un entità vivente e biologicamente distinta dal mezzo ambiente. Rappresenta quindi un modello più semplice e nello stesso più universale, rispetto ad una successiva evoluzione, sotto forma di pelle, che caratterizza gli organismi più evoluti ed in particolare l’uomo. In realtà la pelle acquista un significato assai più specifico e pregnante in riferimento alle fasi di sviluppo dello psichismo ed in particolare di quello umano. Un primo corollario che deriva dalla possibilità di usare questo modello, ci porta a considerare la prerogativa fondametale di ogni membrana, per essere funzionale alla vita biologica, e cioè di essere semipermeabile. Una eccessiva permeabilità esporrebbe infatti l’organismo ad assimilare sia elementi buoni che nocivi dall’ambiente, mentre una impermeabilità altrettanto indiscrimnata non consentirebbe quella molteplicità di scambi (gassosi, liquidi, solidi, onde sonore e luminose) indispensabili al suo adattamento e alla sua crescita. Tale considerazione ci porta ad individuare nelle due modalità estreme, della iper o della im-permeabilità di membrana, la polarità fondamentale entro cui le funzioni discriminative si debbono muovere per assolvere efficacemente alla funzione fondamentale di frontiera/contatto, dove frontiera sta per separazione, blocco nel passaggio di elementi concreti o informazioni e contatto sta per facilitazione al passaggio degli stessi. Prima di scendere tuttavia nell’esame più dettagliato delle funzioni di membrana, ritengo utile proporre uno schema elementare in cui si rappresentano tutte le possibilità elementari di interazione organismo/ambiente (O/A). Ripercorrendo i classici modi di funzionare del Sé o accadimenti al confine (frontiera/contatto) tra un mondo interno (organismo-individuo) ed un mondo esterno (ambiente) ed utilizzando il modello della membrana semipermeabile abbiamo una serie di schemi che propongo nelle figure seguenti, dove sono presentati in sintesi. Nella confluenza, la membrana è iper-permeabile. Questa condizione è fisiologica e vitale nelle fasi precoci di crescita del feto e del bambino piccolo che, come sappiamo, non ha raggiunto neppure a livello biologico-tissutale un sufficiente livello di differenziazione dalla madre al punto di avvalersi degli anticorpi fornitigli dalla stessa per combattere elementi patogeni estranei. Tale recettività indiscriminata si renderà disfunzionale allorchè l’organismo sarà immerso in un ambiente negativo (presenza di sostanze nocive, fattori disturbanti di diverso tipo: concreto, emozionale, valoriale etc.) dai quali l’organismo-individuo non sia in grado di difendersi-diferenziarsi-individuarsi attivando l’elemento frontiera della polarità strutturale del Sé frontiera/contatto. L’egotismo, in quanto possibilità di chiusura selettiva, è quindi fondamentale alla crescita dell’individuo e trova riscontro clinico puntuale in molteplici circostanze e fasi evolutive: la capacità di dire no, individuata da Spitz (1965) attorno ai 6 mesi, di differenziarsi quindi dalla fase simbiotica con l’ambiente materno (Mahler, tr. it. 1978), lo sviluppo della capacità aggressivo-competitiva tesa a lottare per il proprio territorio vitale in senso ampio e a difenderlo da possibili invasioni, gli atteggiamenti oppositivi tipici della condotta adolescenziale tesa a demarcare i confini del Sé e la propria identità sessuale, cultuale e sociale e così via. In questo caso, un atteggiamento egotistico positivo può evolversi in negativo allorchè si produca un atteggiamento cronico ed irrigidito di chiusura al mondo esterno con perdita della funzione Io, della possibilità cioè di discriminare gli stimoli ed attuare le scelte più idonee all’organismo/individuo. Questa è una condizione che si presenta puntualmente in persone esposte ad ambienti non ospitali e quindi potenzialmente pieni di pericoli – reali o fantasmatici – per la sopravivenza (mancanza di calore, sicurezza, cibo e riconoscimento) riassumibili nel concetto di ambiente primario favorevole o di madre sufficientemente buona di Winicott (1962). Nel caso di un’attitudine egotistica, si tratterà di sostenere il processo di consapevolezza che rimandi ai vissuti in cui il paziente scelse, seppure ad un livello inconsapevole, di difendersi disperatamente e sistematicamente da ogni elemento del mondo esterno e farlo confrontare con la non-attualità della stessa situazione. Lo scollamento dell’esperienza precoce dalla presa di coscienza nel qui e ora di elementi di realtà possibilmente mutati, sosterrà il percorso di un progressivo allentamento delle chiusure difensive ed un’attitudine progressivamente più recettiva e disposta ad accogliere il diverso e il nuovo liberando le energie dell’eccitazione e dell’arricchimento che inevitabilmente accompagnano una permeabilità più osmotica con l’ambiente. Pur avendo parlato dell’egotismo, subito dopo la confluenza è l’introiezione a seguire la confluenza nel percorso evolutivo. La indiscriminata recettività rende possibili infatti ogni sorta di introiezione. Le stesse, evidenziano, su un piano di realtà ed anche metaforico, una prima fase in cui l’introietto viene accettato completamente (fase dell’allattamento) ed una in cui il soggetto supera una posizione recettivo-passiva per sviluppare progresivamente un’attitudine aggressivo-attiva (dentizione, masticazione, digestione di cibi che comportano un maggiore lavoro di assimilazione, ricerca attiva degli oggetti (cibi-oggetti-persone) per soddisfare bisogni e desideri. Anche gli introietti (e l’operazione che li consente) possono quindi essere sia buoni che cattivi. L’introiezione di una buona madre, come sappiamo, rappresenta la condizione fondamentale per sviluppare quel senso di sicurezza basale di autocontenimento/autoappoggio, di identità primaria che renderà possibile il superamento della prima fase simbiotica e quindi la possibilità di tollerare l’angoscia di separazione e di proseguire nel processo di individuazione. Analogo discorso può farsi per la figura paterna come elemento strutturante e normativo che favorisce il percorso dal sostegno ambientale all’autoappoggio collegato all’acquisizione dell’indipendenza emotiva, dell’acquisizione di abilità pratiche e conoscitive, dello sviluppo di una sufficiente attitudine aggressivo-manipolativa sul mondo esterno. Introietti negativi del tipo “sei un buono a nulla”, “diffida di tutti” o gli infiniti altri che l’esperienza quotidiana, oltre che clinica, ci fanno incontrare sono alla base di condizionamenti che limitano in modo più o meno grave la possibilità dell’individuo a crescere, fare esperienze, aricchirsi, sviluppare le capacità discriminative e di scelta per realizzare un Sé (osmosi individuo/ambiente) funzionale, capace quindi di eccitazione e di crescita. Un radicato introietto negativo del tipo “non valgo nulla” mi renderà indisponibile ad introiettare un messaggio di apprezzamento, mentre un introietto sufficientemente positivo del tipo “valgo qualcosa” mi immunizzerà da un insulto svalorizzante. Nella retroflessione la chiusura di membrana non è tanto in entrata, come nell’egotismo, quanto in uscita nella direzione individuo/ambiente. Anche qui la connotazione può essere positiva o negativa sempre in rapporto ad una interazione e mai astraendo la funzione dal contesto spazio/temporale (storicizzazione) in cui avviene. L’individuo che retroflette traccia una linea di confine fra Sé e l’ambiente e la traccia nettamente. Egli tratta se stesso come originariamente voleva trattare altre persone o oggetti e dirige le sue energie non più all’esterno nel tentativo di manipolare l’ambiente per soddisfare i suoi bisogni, ma all’interno sostituendo come bersaglio del comportamento se stesso all’ambiente. Mentre un esercizio sano della retroflessione consente di contenere impulsi per dilazionarne l’espressione in tempi e situazioni che ne consentano un più efficace soddisfacimento, una cronica attiutudine a retroflettere comportarà una ritenzione abituale dei propri bisogni con conseguenti comportamenti autoinibitori che ostacoleranno una più più sana osmosi tra bisogni dell’individuo e possibilità di contatto con le risorse dell’ambiente. Il tentativo di rappresentarla graficamete la proiezione è reso più difficile dal maggiore elemento smbolico/fantasmatico cui tale operazione generalmente si accompagna. A tale livello, l’aspetto positivo consiste nella capacità, propria degli esseri maggiormente evoluti, di pevedere e di anticipare i comportamenti dell’altro grazie alla possibilità di mettersi nei suoi panni e di rappresentarsi il mondo visto con i suoi occhi (identificazione proiettiva). Questo tipo di attitudine, posseduta anche da animali più evoluti che ne dispongono per apprendere efficaci comportameti di predazione e di conquista sessuale, si è enormemente sviluppata nell’uomo, sostenuta dalla intrinseca hilflosichkeit (impotenza primitiva) di essere cioè totalmente incapaci di autonomia e quindi in balia quindi di eventi esterni minacciosi ed imprevedibili. A questa funzione dobbiamo anche la capacità di elaborare inferenze sul pensiero altrui e di destreggiarci nelle intricatissme trame delle manipolazioni mentali nostre e altrui. Questa straordinaria dotazione positiva si trasforma in operazione disfunzionale allorchè il soggetto proietta all’esterno non tanto il riconoscimento di qualcosa che è anche proprio, ottenendo la possibilità di conoscere e rappresentarsi l’altro-da-Sé ma proietando sull’altro-da-Sé una parte di Sé che disconosce alienandola. Tale disappropriazione di parti di Sé deriva generalmente da introietti disfunzionali. Un introietto negativo relativo all’aggressività e alla legittimità di esprimere con vigore le proprie emozioni e di difendere i propri diritti vitali, ad esempio, potrà portare una persona a non riconoscere come propria l’emozione repressa. Questa oprazione, lungi dal far scomparire l’emozione stessa, la sovrainveste di un’energia che tende a proiettarsi su un elemento esterno in qualche modo collegato al tema in oggetto. Il soggetto diverrà, ad esempio, fobico per l’aggressività altrui amplificando la percezione passiva della stessa e strutturando una concezione cronica di sentirsi vittima a confronto di un mondo sempre più minaccioso. La processualità verso il delirio di persecuzione sarà quindi avviata. A tali operazioni, che rappresentano quelle meggiormente approfondite, se ne sono aggiunte più di recente altre due. La proflessione (un misto di proiezione e retroflessione), proposta da S. Crocker (1981, 13) come: “manovra in cui qualcuno fa ad un’altra persona qualcosa che vorrebbe gli fosse fatto”. Nell’elaborazione alla luce delle operazioni di membrana-Sé, può definirsi anche come l’opposto della retroflessione in quanto eccessiva permeabilità in uscita (con i corollari clinici della impulsività, dell’incapacità a trattenere e quindi a dilazionare il soddisfacicmento delle esigenze interne). Infine la deflessione, definita dai Polster (Polster E. e M., 1986, 85) come: “manovra per distogliersi dal contatto diretto. E’ un modo di togliere il calore al contatto attuale, per mezzo di circonlocuzioni, parlare troppo, ridere su ciò che si dice, non guardare direttamente la persona con cui si parla, essere astratti piuttosto che specifici … parlare su piuttosto che parlare a e banalizzare l’importanza di cò che si è appena detto”. I limiti di spazio per questa esposizione non consentono di estendere le considerazioni alle applicazioni cliniche e alla pratica della psicoterapia. La motivazione principale a riservare a tale argomento uno spazio più ampio è nato dal tenattivo di ricondurre i quadri psicopatologici e, ancor più in generale, i diversi modi-di-essere-nel-mondo ad un modello semplice, universale ed epistemologicamente fondato su premesse di carattere biologico/organismico. Lo stesso termine di contatto, infatti, da premesse di carattere più biologico (contenimento del feto nell’utero materno nello holding) si allarga a cerchi concentrici interessando non più il solo tatto cutaneo e il gusto ma anche i telerecettori (olfatto, suono, luminosità) come infine i codici simbolici (immagini, linguaggio) sino a spaziare su possibilità di incontro sempre più ampio e sofisticato.
Il modello dell’intervento terapeutico
Il modello di riferimento, alla luce delle premesse qui richiamate, consiste nel favorire delle condizioni in cui il processo di crescita, eccitazione, ad-gressività (come passaggio da una posizione orale e passiva ad una posizione più responsabile ed attiva) venga ripristinato. Anzichè interpretare detti contenuti scissi – che possono esprimersi attraverso il sogno, sintomi di conversione somatica, incongruenze mimico-gestuali, comportamenti di cui il soggetto «si sente agito» o fenomeni dispercettivi di vario tipo – la Gestalt propone un percorso esperienziale di graduale appropriazione ed integrazione delle parti scisse. L’importanza delle emozioni viene sottolineata da Perls: “Le emozioni sono il linguaggio stesso dell’organismo; modificano l’eccitazione basilare a seconda della situazione da affrontare. L’eccitazione viene trasformata in emozioni specifiche, e le emozioni vengono trasformate in azioni sensoriali e motorie. Le emozioni producono le cariche energetiche e mobilitano i modi e mezzi per soddisfare i bisogni” (Perls, 1973, p.33). Anche se oggi si comporta in un certo modo a causa di eventi passati, le sue difficoltà attuali sono connesse al suo agire oggi. Le questioni insolute del passato gli ostruiscono la strada del presente e, mediante la terapia, gli viene data la possibilità di far riemergere tali confitti e di esplorare modalità diverse per affrontarli. In tale processo si tratta di mettere in opera una serie di operazioni che favoriscano il ripristino di un flusso vitale evolutivo nel paziente. Noi siamo noi stessi, tutti noi stessi in ogni gesto, in ogni azione, ogni menzogna, ogni interruzione autoimposta. Importante è acquistarne consapevolezza, appropriarci responsabilmente di chi siamo e di cosa facciamo e chissà, se lo scegliamo, mutare i nostri schemi ripetitivi ed insoddisfacenti. E il lavoro terapeutico è identificare blocchi, sciogliere nodi, aprire circoli viziosi, canalizzare energie intrappolate, integrare dialetticamente vissuti conflittuali, scoprire le carte di un dialogo tra oggetti interni, trasformare distruttività in aggressività e desiderio, riappropriarsi di parte amputate di noi stessi e che premono dolorosamente contro barriere e censure che ci siamo imposti, è scoprire nell’istinto di morte il volto di un più vasto istinto per la vita, è sopravvivere al distacco, imparare l’amore di sè che comprende gli altri e ancora la scoperta dell’altro, è riconoscersi in entrambe le polarità che ci inducono all’ambivalenza senza presumere di poterne negare una. Ancora è ristrutturare una politica di investimenti produttivi, fare delle scelte, permettersi di sbagliare, accettare la propria età emotiva per quello che è e l’aspetto perverso e polimorfo della nostra persistente sessualità infantile. E’ fornire strumenti di comprensione e consapevolezza, accettare il residuo bisogno di dipendenza e di simbiosi per poterla superare avendola in qualche modo soddisfatta, è riconoscersi nei diversi modi e copioni di vita che continuamente agiamo prendendo coscienza di quanto nel presente e nelle scelte ad esso collegate decidiamo di essere soggetti od oggetti di quanto ci riguarda. E’ passare insomma dalla condizione di scissione e di confusione a quello del confronto, della coesistenza e dell’integrazione di elementi che una arcaica concezione manichea ci fa percepire come irriducibilmente contrapposti. Se la terapia è sblocco, sviluppo, crescita, rottura del meccanismo paralizzante, in una parola ricerca di uno spiraglio per la vita che ci liberi dal vicolo cieco, dallo scacco matto allora ogni possibilità va cercata ed affinata. Ecco quindi che il discorso sulle nuove tecniche può vedersi come un modo nuovo di intendere nel suo insieme l’intervento terapeutico e il ruolo del terapeuta. Non potrà comunque esautorarsi, chi si propone come guida di un percorso di crescita esistenziale, dal «cimento dell’invenzione», da un continuo processo di adeguamento che tenga imprescindibilmente conto della specifica persona nello specifico momento e luogo in cui l’incontro si realizza. La capacità di cogliere lo scarto evolutivo inceppato, lo unfinished business o gestalt incompiuta dovrà quindi accompagnarsi alla apertura di un percorso che si avvalga di una gamma sufficientemente ampia di modalità di intervento. Si tratterà, a seconda delle diverse situazioni, di ricondurre il conflitto attuale al trauma originario attraverso tecniche che consentono la regressione e la presentificazione del conflitto agendone il potenziale catartico; di drammatizzare il conflitto tra oggetti interni agendo i diversi ruoli o invitando i membri di un gruppo ad agirli; di evocare l’immagine, la rappresentazione, la gestalt che riveli il come si è qui ed ora davanti a sè e agli altri per agire successivamente la rappresentazione e lasciar sviluppare l’immagine sinchè ci dia compiutamente il suo messaggio. Si tratterà, in altri casi, di ridurre il livello di ansia, il disperato tentativo di controllo sull’ambiente interno ed esterno per sbloccare un vissuto polarizzante, per scoprire un nuovo modo di percepirci nel mondo, per affrontare lavori più settoriali su somatizzazioni o cenestopatie; e ancora di leggere il corpo e lavorare sul corpo per mobilizzare inghorghi energetici e strozzature del flusso vitale; di sviluppare i modi di un linguaggio non verbale per acquisire una maggiore consapevolezza di più immediati livelli di essere e comunicare; di evidenziare sequenze comportamentali infruttuose ed eventualmente rinforzare attitudini più assertive e responsabili. I presupposti teorici della terapia della Gestalt rappresentano uno scheletro (struttura portante solida, ma non per questo immutabile e priva di capacità plastiche che la adattino ad un processo in continua trasformazione) che sottende l’agire terapeutico secondo un’impostazione scrupolosamente esperienziale che per ciò stesso può sfuggire ad un’osservazione sprovveduta e preconcetta. Tali presupposti costituiscono un tutt’uno con un metodo di lavoro costituito da alcune regole essenziali e da una gamma virtualmente infinita di percorsi esperienziali che ogni buon terapeuta saprà creare e ricreare adattandole alle specifiche situazioni di un setting individuale, di gruppo o familiare allo scopo di favorire il processo della consapevolezza dell’integrazione della personalità ed, eventualmente, del cambiamento.
Caratteristiche del contatto e del setting
Al setting viene riservata una grande importanza nella terapia della Gestalt. Non nel senso della rigorosa codifica delle modalità in cui la relazione terapeutica debba avvenire, ma nel senso della attenzione da riservare alla interazione con l’ambiente con cui l’individuo osservato interagisce. Essendo il nucleo dell’attenzione clinica l’osservazione delle modalità dell’adattamento creativo, ogni contesto situazionale potrebbe offrire ricche possibilità di osservazione e di conoscenza sul come un certo individuo si declina nel mondo, su come, in altri termini si configura il suo da-sein. Anche se la situazione più consueta propone lo studio del terapeuta in una interazione duale, come la più frequentemente utilizzata, altre configurazioni di setting vengono prese in considerazione. Dove tuttavia l’aspetto della contestualizzazione con l’ambiente, anche in senso umano, viene attivata massimamente è nel lavoro di gruppo. Il setting gruppale rappresenta una situazione privilegiata del lavoro gestaltico, specie in una fase successiva del lavoro terapeutico che generalmente si avvia con l’interazione duale. Setting individuale e gruppale, nella Gestalt, lungi dal contrapporsi risultano ottimamente integrabili e raccomandati. Tale duplicità di setting può realizzarsi o in successione (in genere il lavoro individuale precede quello gruppale, ma può verificarsi anche il contrario) o contemponeamente. In questo caso i terapeuti possono essere diversi o anche coincidere. Spesso avviene che il lavoro di gruppo avvenenga in co-terapia con la auspicabile presenza sia di una figura maschile che femminile allo scopo di garantire un più ampio registro di chiavi di lettura e stili di lavoro. Una peculiarità del lavoro gestaltico sono anche i gruppi residenziali intensivi di due o più giorni. Questa modalità di lavoro di gruppo, spesso chiamata (seppure indebitamente) maratona consente una più profonda immersione nel crogiolo del lavoro gruppale. Una più radicale decontestualizzazione dalle abituali coordinate esistenziali facilita la più chiara emergenza dei modelli stereotipi ed irrigiditi di condotta ed offre maggiori possibilità per sperimentare modalità di interazione ed autopercezione alternative. In gruppo sono possibili attivazioni di processi terapeutici di ampio respiro. Non è infrequente lavorare su un sogno o su una dinamica interattiva per più ore o anche per un giorno intero, con possbilità di arricchire l’approfondimento della gestalt in oggetto attraverso l’apporto dei membri del gruppo che generalmente sono resi attivamente partecipi da parte di un conduttore esperto. Questa prevede il contributo di vissuti di vario genere (ipotesi interpretative, sensazioni, associazioni, attivazione di dinamiche proiettive) che il terapeuta intesserà partendo dal contenuti di partenza e ad essi ritornando senza mai perdere il filo della gestalt primaria e che, auspicabilmente, richiede di essere chiusa o comunque emergere come figura che si stagli più chiaramente da uno sfondo confuso ed indistinto che contraddistingue la condizione di partenza. Dosare il come, il quando e il modo in cui i membri del gruppo possano partecipare più attivamente al processo terapeutico primario, fa parte ovviamente dell’arte e del mestiere che non è facile codificare in parole ma che giustifica, a parere dello scrivente, un’esperienza diretta da parte di coloro che sono interessati a conoscere l’inconfondibile stile del lavoro esperienziale. Tali laboratori (workshops) di ricerca esperienziale comportano ovviamente anche il rischio di una pericolosa estraneazione dal quotidiano e da quegli aspetti di realtà che fatalmente attendono i partecipanti una volta terminata l’esperienza gruppale. La grande potenzialità, implicita in dette esperienze, impone una proporzionata oculatezza da pare del terapeuta cui si richiede una profonda esperienza nel gestire i processi di cambiamento onde evitare rotture o accelerazioni controproducenti sui delicati processi trasformativi. Un setting importante, del pari contemplato nelle terapia della gestalt è quello della coppia, della famiglia, come pure della comunità terapeutica o dell’impresa che tuttavia la doverosa sintesi di questo contributo non consente di approfondire. Riguardo alla durata del trattamento, possiamo dire con G. Yontef (1991, 285) che “ai vari punti del percorso terapeutico il paziente si confronta con la scelta se terminare la terapia o trarne maggior frutto nella direzione di un più approfondito livello di lavoro”. Non si utilizza quindi una contrattualità prefissata rigidamente ma mirata sulle esigenze e aspettative dell’interessato. Il terapeuta sarà ovviamente chiamato a dare la sua valutazione sulla congruità del percorso fatto o prevedibile in funzione delle problematiche esposte.
Criteri diagnostici utilizzati
Le tradizionali griglie di inquadramento nosografico vengono tenute in considerazione dai terapeuti della Gestalt (Delisle 1992, Yontef 1981) anche se una sistematica rivisitazione della psicopatologia alla luce dei principi della Gestalt richiede ancora di essere messa a fuoco. La apparenenza alla prospettiva fenomenologico-esitenziale sostiene tuttavia una diffidenza di fondo sulle possibilità di categorizzazioni che penalizzino la specificità delle singole situazioni cliniche e che, non raramente, si pongono più come stigmate ostacolante che come utile supporto all’agire terapeutico. “Tipicamente, I terapeuti della Gestalt considerano la valutazione ed il trattamento come parti di un procedimento unificato (…) Uno studio attento, sotto il profilo fenomenologico, del processo della formazione del significato della relazione figura/sfondo consente la comprensione dell’organizzazione della personalità (Yontef, 1981, p.275). Le diverse disfunzioni del Sé, cui si è fatto riferimento, rappresentano generalmente la griglia di riferimento per evidenziare il meccanismo evitativo maggiormente utilizzato. Un’altra griglia di lettura frequentemente utilizzata è quella riferibile alla modalità prevalente nell’interruzione nel ciclo di soddisfazione dei bisogni. Abbiamo anche fatto riferimento alle modalità disfunzionali con le quali un soggetto nevrotico incontra difficoltà a fare emergere in figura da uno sfondo gli elementi dotati di maggiore pregnanza nella situazione concreta interferendo con quanto, in condizioni ordinarie, già Wertheimer (1945) così definiva: “Quando la situaizone nel campo organismo-ambiente è pienamente riconosciuta, sia la comprensione del problema che la soluzione diventano più chiari”. Importante, nello stile di lavoro gestaltico, è anche l’uso autodiagnostico che emerge auspicabilmente da un lavoro esperienziale abilmente condotto: la comprensione cioè, da parte dell’interessato, del come si ostacola nel processo dell’adattamento creativo alle emergenti realtà interiori o esterne. “Con il miglioramento di questo ‘sentire’ – asserisce Perls in relazione allo sviluppo della auto-consapevolezza (Perls, 1947, 225) emergerà una conoscenza più profonda, una psicoanalisi delle caratteristiche della vostra personalità”. La rigorosa subordinazione del momento diagnostico a quello terapeutico, inoltre, porta a fare un uso discreto dell’inquadramento diagnostico e comunque ad evitare quanto Ronad Laing additava a proposito della diagnosi di schizofrenia identificata come uno delle principali fattori patogenetici. Lo stesso etichettamento diagnostico – come anche sostenuto dalla labeling theory – può comportare una stigmate squalificante con ulteriore difficoltà nel processo di adattamento e reintegrazione sociale dell’individuo nel contesto di appartenenza. Nel ricorso a tipizzazioni diagnostiche il terapeuta sarà anche influenzato dal particolare background culturale di provenienza o da metodologie applicative usate congiuntamente alla Gestalt. La formazione di Perls alla scuola di W. Reich ha indubbiamente contribuito a focalizzare in particolare la ricerca sulla struttura del carattere L’obiettivo principale, infatti, è di risalire dal sintomo emergente a quel modo-di-essere-nel-mondo che rappresenta quella costellazione di vissuti ed agiti di cui il sintomo è, appunto, segnale. In altre parole si tratta di passare dal fenomeno alla struttura caratteriale che lo sottende. Nella concezione di Perls (1947, 241) “Il nostro scopo è – attraverso la concentrazione – di ristabilire le funzioni-Io, dissolvere la rigidità del corpo e l’Io pietrificato, cioé il ‘carattere’”. Uno strumento innovativo introdotto in particolare da C. Naranjo per favorire la configurazione sintomatica in quadri caratteriali prevalenti si riferisce alla Psicologia degli Enneatipi. Si rimanda al proposito alla pubbicazione trasdotta anche in italiano come Carattere e Nevrosi (Astrolabio Ed., 1997).
Le tecniche
La Terapia della Gestalt è spesso conosciuta per alcune tecniche rienute particolarmente efficaci e che vegono spesso utilizzate anche nel contesto applicativo di altri indirizzi. Seppure la gestaltizzazione dello stile operativo in psicoterapia è molto diffuso, spesso all’insaputa o addirittura in apparente contrasto con le fonti da parte di chi lo adotta, appare senz’altro riduttivo cogliere dell’approccio gestaltico alcuni aspetti applicativi e non lo spessore del modello teoretico che li sottendono. In un lavoro gestaltico di buona qualità, e non sempre è dato rilevarlo, gli elementi di riferimento epistemlogico come le diverse modalità applicative risultano collegati da una intrinseca coerenza di rimandi reciproci (risultando i singoli elementi gestalticamente significati da un disegno che li avvalora) da non autorizzare il riferimeno ad una specifica tecnica utilizzata. L’uso di tali strumenti, al di fuori di una logica complessiva che li giustifichi in modo appropriato, risulta spesso inappropriato. Per questo motivo anche i testi classici di Gestalt eludono spesso la descrizione di modalità operative che possano essere adottate al di fuori di un apprendimento esperienziale da parte di chi intendesse avvalersene. Una tecnica rimane pur sempre un espediente – precisa Perls -. Nella Terapia della Gestalt lavoriamo per altre cose. Siamo qui per dare impulso al processo di crescita e sviluppo delle potenzialità umane. Non parliamo di felicità istantanea di cura istantanea. Il processo di crescita è un processo che chiede tempo» (Perls. 1969, 10).
1) l’uso del tempo presente. Sul significato filosofico del presente ci siamo già soffermati. Tali premesse si traducono nell’invito spesso rivolto all’analizzando di esporre il suo racconto – sogno o anche rievocazione – non al passato ma al presente. Con questa operazione non si intende operare una simulazione sul come se l’avvenimento si svolgesse adesso (in Gestalt si preferisce lavorare sui vissuti reali più che simulati come pure non si enfatizza il come se dell’esperienza relazionale in terapia) ma al contrario si sottolinea il fatto che l’episodio è significativo adesso se è nel presente che viene rievocato. Tale attitudine si collega anche alla
2) comunicazione diretta. Specie se si tratta di contenuti a tonalità emozionale più intensa, è frequente constatare la tendenza a rifugiarsi dietro un messaggio allusivo ed indiretto per evitare la comunicazione più esplicita e diretta. Tale atteggiamento sostanzialmente infantile evidenzia una inabilità nella
3) assunzione di respons-abilità intesa come abilità a rispondere che notoriamente compete la condizione adulta. Tale modalità operativa non va confusa, come spesso si fa, con un atteggiamento pedagogico ispirato da una posizione persecutoria del tipo “sii responsabile” e che notoriamente comporta una comunicazione a doppio legame. Più che il comportamento, e la sua modifica, la assunzione di responsabilità riguarda la riappropriazione consapevole del vissuto, il re-owning di cui già si è detto. Di qui
4) l’uso della prima persona rinunciando a quel “si dice” (di heideggeriana memoria) a quel “noi” dietro il quale nascondersi per il timore di differenziarci come individui e quindi separati dalla rassicurante e mimetica massificazione di gruppo. L’impostazione della Gestalt su questo punto è molto radicale, sino a
5) deenfatizzare la nozione di inconscio. Se in sogno io uccido mio padre o mi unisco a mia madre, questo non mi autorizza ad attribuire ad un fantasmatico inconscio la responsabilità di questo gesto. Sono io, o comunque un a parte di me, che comunque si esprime in questo agito. Solo assumendo la responsabilità di questo comportamento (di qui la grandezza di Edipo come eroe tragico della consapevolezza e del “conosci te stesso”) io posso in qualche modo fare entrare questo tema nella sfera dell’Io consapevole e sottrarmi quindi alla necessità di un volere altro (attribuibile, a seconda del paradigma culturale dominante, al volere deegli dei, di un genitore o di un anonimo agente interno di cui io non sono consapevole). Di qui l’uso del
6) monodramma. Tale tecnica, detta comunemente anche sedia vuota comporta la assunzione della duplice (o multiforme) identità di cui il mio Sé si compone. Tali sottopersonalità possono ovviamente essere in conflitto reciproco sino ad ignorarsi completamente, come si rivela nello sdoppiamento schizofrenico della personalità. La negoziazione che è possibile avviare tra queste due parti di me in conflitto – alternando successivamente l’identificazione nelle due parti ubicate nelle due sedie – consente abitualmente un notevole chiarimento della polarità in gioco ed una accelerazione dei processi integrativi. In tale modalità è più agevole prescindere inizialmente da un approccio freddamente cognitivo e operare attraverso una più intensa
7) catarsi emozionale. Il lavoro a presa diretta sui processi primari (immagini, emozioni, vissuti corporei, gestualità) rappresenta sicuramente una caratteristica forte dello stile gestaltico. La fase cognitivo-integrativa non viene sottovalutata ma viene generalmente dilazionata a conclusione di un percorso esperienziale che si propone in una prima fase di contattare in modo diretto e meno mediato i contenuti emozionali. L’uso del lavoro sui processi primari va assolutamente sconsigliato a chi non un è passato attraverso una personale esperienza di detta modalità applicativa;
8) l’ologramma. Nella concezione della Gestalt, ogni vissuto ha, seppure con graduazione differenziata degli ingredienti, sia una componente cognitiva, che immaginativa, emozionale, sensopercettiva e vegetativo-corporea. Quale che sia la porta di ingresso nel vissuto, è utile configurarlo secondo la poliedrica prospettiva attraverso il quale può essere colto. Questo significa far emergere la tridimensionalità della gestalt emergente e facilitare quindi il processo della
9) gestaltung. Il processo morfogenetico rappresenta sicuramente l’anima stessa dell’approccio in oggetto. Qual’è la cosa in gioco in questo momento? Cosa vuole esprimersi, configurarsi, emergere con definizione più chiara da uno sfondo più indifferenziato, da una matrice magmatica in cui gli elementi del passato si amalgamano in attesa di partorire il nuovo? Più che una tecnica si tratta qui di un’arte che esperienza e conoscenza consentono di sviluppare vieppiù nel lavoro clinico;
10) la frase ripetuta. La reiterazione di una sequenza di racconto, vuoi riferita al soggetto (e detta magari per inciso o con enfasi emotiva) come pure ad un personaggio significativo nella sequenza stessa consente una amplificazione del vissuto emotivo latente e quindi della possibilità di connotarne il significato e la comprensibilità. Alla ripetizione della frase, che spesso evoca una resistenza proporzionata al tentativo di rimozione del contenuto latente, si chiede di esprimere la sensazione che vi si associa sino a raggiungere una sufficiente congruenza tra contenuto e modalità espressiva. Alla abituale attitudine ad eludere, ad evitare ciò che ci può coinvolgere emotivamente, la Gestalt suggerisce il percorso opposto della
11) amplificazione. Detta tecnica può applicarsi a contenuti di coscienza di varia natura: un gesto, un’espressione verbale, un’immagine, una sensazione corporea. Anche qui, anzichè rassicurare minimizzando, si preferisce attraversare appieno il vissuto (spesso conflittuale). Tale modalità richiede ovviamente lo sviluppo di una adeguata attitudine virgiliana che consenta di accompagnare il nostro esplorare nelle pieghe più temute dei propri “inferi”;
12) il fenomeno e il linguaggio corporeo. Coerentemente alla sua impostazione fenomenologica la Gestalt riconosce un grande valore a ciò che si manifesta prima di presumere di accedere a ciò che si nasconde. Un uso incauto dell’inferenza, attraverso la pratica dell’interpretazione, comporta infatti il rischio di spostarsi sul possibile contenuto recondito svuotando di significato il contenuto che appare e che ha elementi di obiettivabilità, nel senso anche di osservabilità, che non vanno sottovalutati. L’importanza di far emergere ad un livello di maggiore osservabilità i contenuti latenti si associa all’uso dello
13) esperimento. L’evoluzione provede per tentativi ed errori. Nel laboratorio rappresentato da un setting gruppale, più ancora che individuale, il soggetto viene messo nelle condizioni di esplorare modalità comunicative diverse da quelle spesso insoddisfacenti e ripetitive da cui si sente imprigionato. Il conduttore dovrà quindi predisporre un percorso esperienziale capace di favorire questa esplorazione che mette in gioco sia il comportamento agito che i vissuti a questo collegati. Sarà compito del ricercatore confrontarsi con l’esperienza raccolta potendo integrare, o anche rifiutare, un diverso modo-di-essere-nel -mondo. Nella capacità di inventare un percorso esperienziale adeguato (innovativo ma anche praticabile) si gioca evidentemente l’abilità del terapeuta che sarà chiamato ad immettere anche lementi creativi ed inventivi e non solo applicativi di moduli prefissati. Sarà chiamato, in altri termini, anche a
14) correre dei rischi. Il sostegno alla assunzione di rischio è una caratteristica non marginale nell’approcco della Gestalt che si propone come non paricolarmente protettivo e tutorio. Provocatoriamente Perls definì la Gestalt una “terapia per sani” sottolinenado l’importanza dell’assumersi delle resposnabilità nel percorso di crescita personale per consentire il
15) passaggio dal sostegno ambientale all’autosostegno. Il primo corrisponde ovvamente ad una fase più arcaica della nosra evoluzione personale nella quale abbiamo bisogno di un maggiore aiuto, di un “Io sostitutivo”, per utiizzare un concetto di Winnicott, generalmente dato dalla funzione materna. Successivamente abbiamo bisogno di stimoli ed impulsi più vigorosi per assumerci il rischio della differenziazione e della esplorazione del mondo che si configurano come percorso evolutivo maggiormente improntato alla funzione paterna.
Il processo della gestaltungh
Se per gestalt si intende la figura-struttura nel suo aspetto statico, per gestaltung si intende, sempre nella lingua tedesca, il processo morfogenetico o di progressiva configurazione delle gestalten nel percorso evolutivo. Tale concetto può, isomorficamente, riscontrarsi nel passaggio sintropico da elementi inorganici più semplici a più complessi (frattali, cristalli), nell’evoluzione di una specie animale, di un pensiero (dall’intuizione di un motivo allo sviluppo di una sinfonia), di una nazione, di un movimento culturale etc. Per quanto riguarda l’ambito che ci interessa più da vicino, e cioè quello dello psichismo, «La qualità più importante e interessante di una gestalt – dice Perls – è la sua dinamica, la necessità imperiosa che una gestalt possiede che la porta a chiudersi e a completarsi. Tutti i giorni sperimentiamo questa dinamica. A volte il miglior nome che si può dare ad una gestalt incompleta è di chiamarla semplicemente situazione inconclusa». Tale schema interpretativo (che possiamo in qualche modo avvicinare al concetto freudiano di fissazione) introduce una possibilità di lettura assai diversa di quei meccanismi ripetitivi che Freud ricondusse all’istinto di morte e che passano sotto il termine di coazione a ripetere. Sarebbe quindi la stessa spinta evolutiva, qualcosa che possiamo quindi avvicinare all’istinto di vita, che giustifica il riproporsi di situazioni pur vissute dolorosamente e non quindi un ipotetico istinto di morte che per tali situazioni può risultare inutile ed anzi svantaggioso invocare. La persona sana, che non subisce continue interferenze per situazioni irrisolte, dispone quindi di tutte le sue energie per entrare autenticamente in contatto con l’ambiente in cui si trova nel continuo fluire del tempo potendo quindi realizzare una soddisfacente osmosi con l’ambiente in cui viene a trovarsi. Tale flusso di scambi soddisfacenti con l’ambiente sarebbe invece ostacolato nell’individuo nevrotico che evidenzierebbe, ad una osservazione accorta dei suoi gesti e modalità di interazione, un frequente ripresentarsi di situazioni di blocco e di autointerferenza. Il lavoro terapeutico si proporrà quindi di far emergere le gestalten incompiute (unfinished businesses) per identificare gli elementi di interruzione e favorirne la naturale evoluzione. Anzichè andare a riesumare i resti mal rintracciabili di un più o meno remoto passato, sarà sufficiente analizzare la struttura interna del modo attuale di relazionarsi all’ambiente (e a sè stesso) per far emergere i meccanismi di autolimitazione e le fantasie che a livello più o meno consapevole li sostengono.
La relazione figura/sfondo “Primo piano e sfondo devono essere facilmente intercambiabili, secondo le esigenze del mio essere. Se così non è, abbiamo accumulazione di situazioni non finite, di idee fisse, di rigida struttura caratteriale. Ai confini avremo turbe del sistema dell’attenzione: confusione, la perdita di contatto, capacità di concentrarsi e di coinvolgersi” (F. Perls, 1969, 16). Perls fa sua senza riserve la dinamica figura/sfondo ed anzi, ancora una volta, ne estende il significato dal campo dei fenomeni percettivo-visivi a quello più generale che riguarda la modalità di rapportarsi dell’individuo nei confronti dell’ambiente esterno come pure dell’ambiente interno. L’attitudine di cogliere la realtà emergente, l’elemento che è più carico di significato e di energia in un preciso momento, consente all’individuo sano di concentrare sullo stesso le sue facoltà di attenzione, di mobilizzare le strategie utili a realizzare con lo stesso elemento uno scambio vantaggioso di dare-avere ed in definitiva di assorbire gli elementi di cui abbisogna per poi muoversi verso altre realtà che successivamente si saranno caricate di maggiori valenze energetiche. Tale operazione presuppone ovviamente la contemporanea capacità di lasciare sullo sfondo gli elementi meno significativi ed ottenere quindi quella concentrazione energetica che unicamente consente di finalizzare utilmente le operazioni di pensiero ed i comportamenti destinati al raggiungimento di obiettivi specifici.
Il ciclo della gestalt
Con questo termine, detto anche (con termine limitativo) ciclo della soddisfazione dei bisogni, si indica il continuo processo di emergenza e scomparsa delle diverse gestalt nell’interazione individuo/ambiente. Parafrasando un detto zen possiamo evidenziare come l’individuo (ma il discorso vale anche isomorficamente per organismi biologicamente meno evoluti o anche per organismi sociali) è esposto ad un susseguirsi di esigenze o desideri che acquistano periodicamente maggiore rilevanza rispetto ad altre: “al se vuoi andare, allora va; se vuoi fermarti, siediti; se hai fame, mangia; se sei stanco, coricati e dormi”. Sembra facile, ma in realtà non lo è. Lo sottolinea un’altro aforisma zen che dice: “se ho fame mangio. Non è questo un miracolo?”. A pensarci bene, infatti, quante volte mangiamo pur non avendo fame o non mangiamo pur avendone? Il dilagante problema della bulimia/anoressia, come anche dell’alcolismo e della tossicodipendenza solo per fare qualche esempio, non esisterebbe se effettivamente il ciclo dei bisogni fluisse in modo armonico in un’osmosi funzionale tra bisogni dell’organismo e risorse ambientali. Per tale motivo, alcuni Autori (P. Goodmann, J. Zinker e M ed E. Polster) hanno cercato di approfondire più in dettaglio i meccanismi del suo funzionamento come delle sue interferenze. Nello schema qui riportato, che noi applicheremo per fare un esempio al bisogno alimentare, vengono evidenziate le seguenti fasi: – sensazione. Una sensazione diffusa e non ancora identificata si attiva nel nostro organismo, nel nostro caso a prevalente localizzazione epigastrica, e ci mette in preallarme rispetto alla necessità di assumere cibo; – consapevolezza. Tale sensazione acquista progressivamente i connotati del la fame nella misura in cui noi possiamo metterla adeguatamente a fuoco. Questo non avviene, notoriamente, se interferiscono meccanismi interferenti (come può avvenire ad esempio nell’anoressia) o per manza di contatto e attenzione per le proprie esigenze corporee; – mobilizzazione o energizzazione. Alla presa di coscienza segue, sempre che non ci siano meccanismi ostacolanti, la fase della mobilitazione delle energie e della articolazione di una strategia coerente con l’obiettivo identificato. Anche questa fase può essere soggetta ad elementi disfunzionali come presenza di inibizioni di vario tipo carenza di capacità progettuale; – azione. A questa (che spesso viene associata alla precedente) segue la messa in atto di comportamenti tesi quindi a mettere in atto un comportamento teso al conseguimento di quanto richiesto per soddisfare il bisogno (gestalt) emergente. Una carenza della spinta ad-gressiva può interferire negativamente specie quando il conseguimento dell’obiettivo implica una maggiore mobilizzazione di energie da parte del soggetto; – contatto. Il conseguimento dell’obiettivo consente la assimilazione e quindi il soddisfacimento del bisogno. In certi casi possiamo assistere ad una mancanza di soddisfacimento pur in presenza dell’oggetto richiesto (per problematiche collegate al tema dell’invidia, della voracità, del masochismo etc.); – distacco. Al soddisfacimento segue una fase di disinteresse per l’elemento precedentemente ricercato e la disponibilità per l’emergenza di un nuovo ciclo (il desiderio di riposo, di socializzare, di muoversi o altro). In certi casi il distacco non è agevole (fissazioni orali, problemi con lo svincolo, insicurezze etc.). A queste fasi, qui riferite in modo assai stringato, vengono anche collegate le diverse disfunzioni del Sé, di cui si dirà più avanti. La sintesi richiesta a questa presentazione non ci permette tuttavia di addentrarci in tali aspetti più dettagliati.
Aggressivita’ e assimilazione Si salda a questa concezione il concetto di aggressività, intesa in senso etimologico come capacità di “ad-gredire” (dal latino adgredior: andare verso) un oggetto di desiderio o comunque un obiettivo che il soggetto mette a fuoco selezionandolo dalla multiforme congerie di elementi che costituiscono il campo percettivo di fondo. L’incapacità di far emergere da un campo una figura su cui concentrare la propria attenzione ed energia rappresenta un frequente motivo di insuccesso a livello esistenziale le cui origini andranno opportunamente investigate nella valutazione diagnostica e nel lavoro clinico che da questo può derivarne. Come già si è accennato, Perls sviluppò nella sua opera Ego, Hunger and Aggression il tema dell’istinto alimentare vedendo nell’incorporazione di cibo il paradigma di base di futuri modelli di relazione con l’ambiente. Il processo nutritivo prevede infatti che il soggetto introietti il cibo e lo assimili, nel senso etimologico di renderlo simile a sè, per avvalersene compiutamente. Se così non fosse, infatti, il materiale resterebbe indigerito. Tale digestione contempla tuttavia la completa distruzione del materiale ingerito e la conseguente operazione di utilizzo degli elementi nutritivi nonchè espulsione delle parti non utilizzabili. Tale operazione, diversamente da quanto sostenuto da Abraham e da altri psicoanalisti che si sono occupati della fase orale, non implica necessariamente una valenza sadica collegata alla dentizione. E’ nella natura delle cose che il processo assimilativo comporti la distruzione-incorporazione del materiale introiettato. Se tale paradigma risulta apparentemente ovvio per quanto riguarda il comportamento alimentare, lo è meno se trasposto sul versante emozionale o cognitivo. Ci troveremo spesso, infatti, in situazioni in cui anche i processi di apprendimento vengono ostacolati dalla difficoltà del discente a fa proprio (assimilando) il materiale ricevuto concedendosi la possibilità di rifiutare (evacuazione o rigetto) del materiale ritenuto inutile o dannoso. L’incapacità di attivare tale funzione digestiva e discriminativa comporterà una incertezza nei confini dell’Io (Ego boundaries) e situazioni di inevitabile malessere, come meglio verrà esposto nella sezione riservata alla Teoria del Sé.
Morfogenesi e adattamento creativo Tutti i fenomeni vitali appaiono, in quest’ottica, come espressione di questa alternanza tra momento anamorfico, in cui una realtà emerge in figura da uno sfondo più indifferenziato, ed a questo ritorna, dopo essersi definito, in-dividuato, nella fase catamorfica in cui si dissolvono, si disgregano gli elementi di differenziazione per ritornare ad uno stato di quiescente dissoluzione. A questo processo segue un nuovo processo morfogenetico, una nuova gestaltung e così via nel perenne fluire, nel panta rei (eracliteo) del continuo divenire e dissolversi. Vivere significa quindi essere partecipi di questa dinamica del perenne divenire, fatto di alternanza tra creazione e distruzione, tra costruzione e dissolvenza, tra movimento sintropico ed entropico. Anche nel lavoro clinico si tratterà di accompagnare il processo in atto nel suo naturale evolversi. Tale processo potrà avere per oggetto un legame genitore figlio (c’è una prima fase in cui va favorito l’attaccamento e la costruzione del legame come una seconda in cui lo stesso va allentato per favorire il processo differenziazione e di “individuazione” per usare un termine caro a Jung), un rapporto di coppia (fasi di nascita e strutturazione della relazione e fasi in cui attenuare un’angoscia abbandonica che impedirebbe lo scioglimento di una relazione non più funzionale), uno stato di malattia (ci sono fasi in cui è necessario mobilitare tutte le risorse disponibili per lottare contro la malattia ed altre in cui accettare uno stato morboso non più guaribile ed anzi prepararsi alla morte).
Il come e il che cosa L’interesse per il “come” un processo si evidenzia prima del “perché” e delle cause più o meno remote che lo giustificano, evidenzia un’attitudine volutamente miope che ci consente di stare a contatto con ciò che è evidente se solo abbiamo occhi ed orecchi per occuparci dei cosiddetti “fenomeni di superficie”, di ciò che in modo solo ingannevolmente ovvio si manifesta se solo la nostra attenzione non è polarizzata dai disperati tentativi di forzare a priori i dati emergenti (o fantasticati) entro gli angusti ed immutabili schemi mentali che la paura del sempre nuovo e mutevole ci porta ad accumulare ed a custodire come divine tavole della legge. Di qui ancora l’attenzione per il sintomo, la gestualità, la postura, il tono di voce oltre che il contenuto del messaggio verbale (così spesso incongruenti tra loro ed espressione quindi di aspetti scissi della personalità) per ciò che appare prima che per ciò che è nascosto (noumeno o contenuto inconscio che dir si voglia a seconda delle chiavi di lettura) in definitiva al “come” un fenomeno si esprime prima che al “che cosa” lo stesso significhi o sottenda. L’attenzione al fenomeno, se profonda e consapevole, produce il risultato paradosso di metterci in contatto con l’essenza che lo sostiene, come in natura non vi è forma che non esprima una struttura, una gestalt, appunto. Penetrante al proposito è l’espressione di Perls ”Coltiva al contrario l’attitudine a cogliere l’essenza dei fenomeni, la struttura intrinseca delle cose, la gestalt, di intuirne fuggevolmente l’eternità del messaggio che si nasconde e si rivela insieme nel fenomeno, nel segno, nelle tante riverberazioni della realtà rinviando in questo a quanto Eraclito accenna a proposito del logos”.
Il continuum di consapevolezza
Il lavoro sulla consapevolezza rappresenta probabilmente la caratteristica più peculiare dell’approccio gestaltico. Il luogo privilegiato della conoscenza, infatti, è il soggetto che si rivolge al terapeuta in una fase iniziale nella quale non ha ancora sviluppato la capacità di coltivarla in modo autonomo ed efficace. Il termine di awareness, consapevolezza, viene preferito a quello di insight o presa di coscienza per sottolineare l’aspetto olistico, e quindi non solo intellettivo, dell’atto conoscitivo stesso che, come abbiamo visto, implica generalmente anche una componente immaginale, emozionale e sensopercettiva. “La nostra tecnica per sviluppare l’autoconsapevolezza consiste nell’estendere in ogni direzione le aree della attuale consapevolezza. Per riuscire in questo è necessario portare alla vostra attenzione le vostre esperienze che preferireste evitare e non riconoscerle come vostre. In seguito verrà lentamente alla luce l’intero sistema dei blocchi su cui si basa la vostra abitudine, l’abituale strategia di resistenza alla consapevolezza” (F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, 1951, 91). Sempre per Perls (1947, 219) “L’autorealizzazione è possibile solo se la consapevolezza del tempo e dello spazio penetra ogni angolo della nostra esistenza; fondamentalmente essa è il senso dell’identità, l’apprezzamento della realtà del presente”. Educarci quindi – per poter aiutare altri a farlo – ad essere nei propri gesti, nel proprio corpo, parola, sentimento. Assumerci tutte le espressioni del nostro modo-di-essere-nel-mondo anche nei particolari apparentemente irrilevanti. Lapsus e atti mancati sono frutto di comportamenti inconsapevoli, di qualcosa di noi che ci agisce al di fuori della nostra consapevolezza. Non ci appartengono quindi compiutamente. Il lavoro sta quindi nel re-owning nel riappropriarci consapevolmente di parti scisse, di pezzi del nostro Sé che alieniamo. Ma perchè ci disappropriamo di parti del Sé? Paura, remora giudicativa, desiderio rimosso, abitudine all’evitamento alla inconsapevolezza. Tutti atteggiamenti che ci estraniano da noi stessi, che ci mutilano di parti di noi e ci impediscono di essere noi stessi compiutamente. Non solo nelle parti cosiddette buone ma nell’essere noi stessi qui-ed-ora per quello che effettivamente siamo. Il lavoro sulla consapevolezza prevede più livelli di indagine:La componente corporeo-cenestesica Coerentemente al taglio esperienziale del lavoro gestaltico, si tende a privilegiare, almeno inizialmente, il versante corporeo per poi accedere a quelli più intellettivi. La dimensione corporea, coerentemente ad un’impostazione comune sia alla fenomenologica che dello Zen, non è qualcosa di scisso dalle facoltà mentali. Si tratta in altri termini di risalire da un corpo che abbiamo (in tedesco: korper) ad un corpo che siamo (leib). “Noi siamo i primati-organismi, noi (cioè qualche misterioso io), non abbiamo un organismo” (Perls, 1969, 16).La componente senso-percettiva L’indagine delle senso-percezioni che un individuo coglie con carattere di priorità rappresenta un’interessantissimo strumento di accesso alla sua percezione del mondo. Come coerentemente ricorda Perls (1947, 213). “La percezione è un’attività e non un atteggiamento puramente passivo” . Attraverso il filtro selettivo con cui ognuno dà priorità ad alcuni elementi rispetto ad altri è possibile risalire alla particolare visione del mondo che ognuno, più o meno consapevolmente, coltiva e da questa risalire alle eventuali preclusioni nel percepire altre realtà e, da queste ancora, ai fattori a cui ricondurre la strutturazione di tali preclusioni.La componente emozionale L’approccio gestaltico, anche in modo spesso esagerato e stereotipo, viene associato con una peculiarità di intervento sul versante emozionale più che cognitivo. In effetti, anche nell’espressione del suo fondatore, la stessa “appare una via al risveglio emozionale, più breve e superiore a quella costituita dal comune discorso colloquiale, e superiore alla tecnica delle libere associazioni (Perls, 1947, 218). La tonalità emozionale che accompagna altri vissuti (sensazioni, ricordi, immagini oniriche) viene regolamente investigata da un terapeuta gesatltico al fine di dare spessore olistico al vissuto riferito.La componente cognitiva Il lavoro sulla consapevolezza cognitiva non è dei più semplici. Come dice S. Aurobindo “sono i pensieri che ci pensano” . Alcune percezioni sul mondo, recentemente definiti anche basic beliefs, precedono la consapevolezza stessa che noi in età precoci possiamo avere sulla strutturazione di tali convincimenti di fondo. Il nostro modo di vedere il mondo si identifica talmente con questi filtri cognitivi da farci ritenere che siano il nostro modo di pensare. Solo con grande applicazione potremo scoprire che in realtà tali pensieri spesso non ci appartengono e che li abbiamo mutuati da altri in modo acritico ed inconsapevole.
Libere associazioni e concentrazione Perls prende le distanze dall’enfasi posta da Freud sul concetto di inconscio sottolineando come la possibilità di valorizzare il linguaggio corporeo e immaginativo offre ampie possibiità di accesso alle parti scisse in quanto affioranti comunque e quindi visibili se solo siamo allenati a coglierle: “Nulla è mai veramente represso. Tutte le gestalt rilevanti emergono, esse sono la superficie, esse sono evidenti” (F. Perls, 1969, 241). Tale diversificazione teorica comportò anche una modifica a livello metodologico nel senso di trascurare la tecnica delle libere associazioni a favore di una metodica basata essenzialmente sul non evitamento del nucleo rimosso a cui Perls dette il nome di concentrazione. “Questo saltare da una figura all’altra caratterizza la persona che, anche nella vita è instabile, irrequieta, incapace di concentrarsi (F. Perls, 1947, 213)”. Ne consegue che l’orientamento terapeutico deve tendere a contenere i meccanismi di evitamento e a sostenere un lavoro di focalizzazione sulla gestalt ansiogena. Il rischio, per dirla con Perls, è infatti che la associazione libera si trasformi in “libera dissociazione” in cui saltando di palo in frasca si può perdere il filo unificante, la gestalt che dia significato ai frammenti, il disegno in cui i pezzi del puzzle trovino la loro com-posizione ed il loro significato. Al di là di tale enfatizzazione è d’altronde innegabile che il concetto di rimozione dalla sfera della coscienza, e quindi di inconscio, continua a far parte del bagaglio sia terorico che applicativo della Gestalt. In tempi recenti si anzi assistito ad un recupero anche esplicito, specie ad opera di Claudio Naranjo, dell’uso della libera assciazione usata non tanto in alternativa quanto in modo complementare a quello della concentrazione.
Dal girare attorno all’attraversare
Con il termine aboutism (intornismo), Perls indicava la frequente tendenza dgli esseri umani a non affrontare direttamente alcuni aspetti della vita, specie quelli che ci procurano più ansia, ma di girargli attorno. A ben vedere, gran parte dei meccanismi di difesa, di cui anche Freud si è occupato, hanno a che fare con l’attitudine evitativa (negazione, rimozione, spostamento etc.). Il lavoro sulla consapevolezza, che si propone come superamento del meccanismo evitativo, non è quindi ovvio come può apparire ad una considerazione sprovveduta ed incontra diversi tipi di difficoltà (descritte anche dalle discipline focalizzate sulle pratiche meditative) alle quali l’approccio gestaltico cerca di far fronte. Per dare la parola a Perls (1947, 201) “l’evitamento è la caratteristica principale della nevrosi ed è ovvio che la concentrazione è il suo giusto apposto … Ma, si tratta naturalmente di quella concentrazione sull’oggetto che, in accordo con la struttura della situazione, richiede di diventare figura. In parole semplici: dobbiamo affrontare i fatti. La psicoterapia significa aiutare il paziente ad ascoltare quei fatti che nasconde a se stesso”. Al di là delle aspettative forse eccessive che il Padre della Gestalt attribuiva a questa attitudine è innegabile il processo di cambiamento che attraverso l’esercizio della consapevolezza si determina nell’individuo. Il prezzo è ovviamente connesso all’emergenza di contenuti sgradevoli. “Spesso è necessario passare attraverso l’inferno e non girargli “attorno” (1947, 241). In tale indicazione di percorso si evoca il paradigma del processo autoconoscitivo che viene emblematicamente rappresentato nel racconto di Edipo, l’eroe che non si fermò di fronte al rischio del “conosci te stesso” sino alle sue ultime conseguenze, come anche nel percorso dantesco che prevede la discesa sino al più profondo degli inferi per poi preludere all’ “indi venimmo a riveder le stelle”. Si tratta infatti di entrare nei buchi neri della coscienza, da cui maggiormente tendiamo istintivamente a rifuggire. ‘Un compito molto arduo, uguale in difficoltà solo all’allenamento al silenzio interiore, è l’attenzione ad uno scotoma mentale” (Perls, 1947, 241).
Dal sostegno ambientale all’autosostegno
Tale forma di attraversamento può risultare talmente angosciosa da non risultare praticabile da pare di un soggetto se non con l’aiuto di un compagno di viaggio dotato di quelle doti di sensibilità, conoscenza ed esperienza personale del percorso di cui si presume sia dotato colui che si pone come accompagnatore. Si riassume in questo paradigma non solo la figura di Virgilio nel percorso dantesco, ma anche l’essenza del viaggio sciamanico. Da questo personaggio, generalmente un personaggio che ha attraversato lui stesso esperienze di morte o di malattia, ci si aspetta infatti la capacità di entrare in una dimensione altra dove possa trovare quei nessi di significato capaci di dare spiegazione di un ordine alterato e prefigurare quindi il rimedio. Fondamentale, in quest’ottica, non è quindi tanto la capacità del terapeuta di dare indicazioni dall’alto della sua posizione di conoscenza quanto la sua capacità di entrare nelle parti oscure della coscienza del paziente ed uscirne possibilmente con un elemento di chiarificazione esplorato congiuntamente. La “ferita del terapeuta”, se ovviamente elaborata attraverso il suo stesso percorso di crescita, rappresenterà, come asserisce Jung, lo strumento principale di condivisione, di sim-patia (termine che Perls preferiva a quello di em-patia sottolineando l’attitudine alla partecipazione più che alla immedesimazione) e di capacità di accompagnamento. In realtà, il processo psicoterapeutico, in quanto esperienza riparativa secondo il paradigma di Ferenczi, di qualcosa che presumibilmente non ha funzionato nel processo educativo (inteso etimologicamente come e-ducere, come accompagnamento da una condizione infantile ad una condizione adulta) contempla sia la riedizione di una funzione materna che paterna. Dando la parola a B. Simmons “Fritz individuava due funzioni necessarie nel ruolo terapeutico: quella di incoraggiamento e quella di frustrazione. L’incoraggiamento che è un atteggiamento “materno”, comunica al cliente che Lui può; la frustrazione che rappresenta un atteggiamento più “paterno” fa capire al cliente che Lui deve… Naranjo trasforma questa constatazione in una classificazione delle tecniche repressive ed espressive, ossia interventi che lo spingono ad un contatto più attento e dettagliato con il presente. Anche se riduttiva, questa utilizzazione della visione di Perls facilita la comprensione delle diverse possibilità di interventi terapeutici” (Simmons B, 1973, 9)
Il radicarci nel qui ed ora
Lungi dall’assicurare la felicità, la conoscenza può semmai favorire una profonda trasformazione dell’esperienza della vita pur nelle sue inevitabili componenti difficili e, forse, tragiche. Il mito onnipotente che la conoscenza possa esorcizzare il dolore ricorre nei più alti insegnamenti filosofico-religiosi (Socrate, Buddha) e si presenta in qualche modo anche nella riedizione freudiana nel percorso conoscitivo come cura dalla nevrosi. In realtà spesso, per usare un aforisma antico, “qui auget scientiam dolorem” (chi accresce la conoscenza accresce il dolore). Quello che indubbiamente può cambiare è la qualità della sofferenza stessa che da nevrotica e parzialmente inconsapevole può divenire più consapevole e più tollerabile se congiuntamente si è associato un processo trasformativo e di crescita dell’individuo. L’enfasi su questo punto giustifica la dizione di “continuum della consapevolezza” che generalmente viene attribuito a questa attitudine nel lavoro gestaltico. “Mantenere il vostro senso della realtà: uno la coscienza intatta che la vostra consapevolezza esiste qui e ora; cercate di rendervi conto del fatto che siete voi a vivere l’esperienza: due siete voi che agite, osservate, reagite, resistete; che prestate attenzione a tutte le vostre esperienze, quelle “interne” come a quelle “esterne”, quelle astratte e quelle concrete, quelle che tendono verso il passato e quelle che tendono verso il futuro, quelle che “desiderate”, quelle che “dovete”, quelle che semplicemente “sono”, quelle che intraprendete deliberatamente, quelle che sembrano avvenire spontaneamente; nel corso di ogni esperienza, senza eccezione alcuna, ripetetevi: ora sono consapevole che”…. (F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, 1951, 95).
Passare all’azione
Nel paradigma dell’arco diastaltico (il movimento della gamba cioè che succede immediatamente alla percussione della struttura neurotendinea della rotula), come anche Perls ricorda, compare lo stimolo e poi la risposta. In un crescendo di operazioni sempre più evolute, in misura della complessità dell’organismo vivente e delle funzioni interessate, si avrà una elaborazione sempre più articolata dello stimolo prima di avere una risposta. La stessa sarà sempre meno automatica e sempre più consapevole e discriminativa. La salute dell’organismo nella interazione con il suo ambiente dipenderà quindi dalla capacità di riconoscere ed elaborare degli stimoli dal mondo esterno ma anche dalla capacità di evocare risposte efficaci. Alla prima fase più recettiva dovrà seguire quindi una fase più attiva nella quale l’organismo, presa coscienza degli elementi in gioco, elaborerà utili strategie di comportamento manipolativo sul mondo esterno. Dando la parola a Perls (1947, 268) “La cura richiede ovviamente di percorrere le seguenti tappe: dovete diventare non soltanto pienamente consapevoli di quelle di quale emozione, interesse o impulso state nascondendo, ma dovete anche esprimerlo con parole, arte o azione”. Il lavoro sulla consapevolezza nel presente è quindi un’occasione per una messa in azione che, contrariamente alla squalifica psicoanalitica per i comportamenti agiti all’interno del setting terapeutico, viene spesso sostenuta all’interno di una riscoperta autorizzazione ad esplorare moduli comportamentali diversi da quelli rigidi e ripetitivi a cui la rete dei divieti introiettati può averci abituati. Questo non implica, ovviamente, il sostegno ad ogni impulsivo acting out e la svalorizzazione del processo di simbolizzazione dei comportamenti, bensì il sostegno ad una più sinergica congruità tra vissuti ed i comportamenti che ad essi desiderabilmente possono corrispondere.
Il presente
Il privilegio per la connotazione spazio-temporale riferita al presente (già sottolineata alcuni psicoanalisti tra cui Ferenczi, Adler, Reich e Jung nel valorizzare il dato esperienziale attuale oltre alle “ceneri archeologiche”) si giustifica per più ragioni convergenti: – è nel presente che di fatto ci interroghiamo sull’esistenza che, lungi dal potersi ipotizzare in termini generali ed astratti, si declina inevitabilmente nelle coordinate spazio-temporali in cui di fatto ci troviamo; – questo radicamento nel qui ed ora con il mio corpo-sensazioni-emozioni-pensieri che sono me (e non mie) mi permettono di verificare in concreto la qualità delle interazioni con l’ambiente (prima fra tutte quella caratterizzata dalla presenza del terapeuta, da un gruppo di persone, dagli elementi di corredo presenti) e di verificare di conseguenza attraverso il lavoro sulla consapevolezza quanto queste interazioni siano o non siano soddisfacenti e forse migliorabili; – il presente favorisce l’impatto, il contatto più diretto e im-mediato con le cose, le fantasie, le emozioni. La dimensione del passato o del futuro è spesso un modo per localizzare lontano da me situazioni e vissuti eludendo un confronto più diretto nella relazione Individuo/Ambiente; – il presente ancora come condizione per l’esercizio di una consapevolezza che non è destinata necessariamente ad identificare bisogni o lacune da colmare, ma più semplicemente a farmi assaporare il fluire dell’essere, delle sensazioni, pensieri, emozioni progressivamente svincolate dalle introiezioni persecutorie e doveristiche del se fossi e del dovrei; Il presente non significa ovviamente negazione del passato e del futuro quali dimensioni che nel presente conservano un autentico significato. Valga, per le tante citazioni riferibili al proposito, quello di Laura Perls: «Quanto esiste, esiste qui ed ora, il passato esiste ora come memoria, nostalgia, rimpianto, risentimento, fantasia, leggenda o storia Il futuro esiste qui ed ora nel presente attuale come anticipazione, pianificazione, saggio, aspettativa e speranza o timore o disperazione. La terapia della Gestalt lo assume tale e quale si presenta nel qui ed ora, non per come è stato o come potrebbe arrivare ad essere. E una focalizzazione fenomenologico-esistenziale nella misura in cui è esperienza e sperimentale» (L. Perls, 1992, 78). Interessante è lo stesso uso del presente come chiave di lettura di forme di sofferenza come, conseguentemente, di strumento di cura. “L’ansia – sostiene Perls (1969, 115) è la tensione fra l’ora e il dopo”.
La polarità dinamica
La dinamica della polarità trova nella concezione della Gestalt la sua evoluzione più radicale che, in qualche modo, va oltre la stessa concezione junghiana sulla sintesi degli opposti per la quale nella “personalità ombra” vengono infatti intravisti aspetti che vanno utilmente integrati nella personalità più consapevole per raggiungere una maggiore integrazione del Sé. La concezione polare rappresenta al contrario un elemento costitutivo primario della concezione gestaltica che risente non solo degli influssi di derivazione orientale, ma di rilevanti corrispondenze nel pensiero di Friedlander che, per Claudio Naranjo, rappresentò anche un ponte tra Nietzsche e Perls. In tale prospettiva “Apollo non poteva vivere senza Dioniso”, sintetizza genialmente Nietszche ne La nascita della tragedia. Nell’estrema negazione dell’altro-da-Sé, del diverso per antonomasia si apre la voragine della spaccatura e della malattia nella sua forma più disperata. Lo splitting della personalità conduce infatti a quella inconoscibilità tra le parti del Sé così acutamente colta dal neo-mito del dottor Jekhill e del mister Hyde e che, non casualmente, tanto successo ha avuto. Più che di polarità, inoltre, sarebbe opportuno parlare di multilarità (Zincker, 1978) intendendo con questo termine il procedere per coppie dinamicamente correlate: individuo/ambiente, figura/sfondo, mondo interno/mondo esterno, maschile/ /femminile, cosciente/inconscio, etc..
Concetti e immagini ovvero la dinamica tra o due emisferi A tema della polarità si collega l’interazione interemisferica che attualmente rappresenta un dato ampiamente acquisito. Rispetto agli approcci che privilegiano il linguaggio verbale e la analisi cognitiva, dette quindi dell’emisfero sinistro, si potrebbe considerare la Gestalt come appartenente prioritariamente a quello destro (Ginger, 1990, 204). In realtà, tale spostamento intende dare maggior rilievo ad una parte di noi che viene considerata “non dominante” e quindi trascurata (per inciso è anche quella deputata alla produzione onirica) anche se l’obiettivo finale sta in un equilibrio tra le due funzioni emisferiche. Puntuale F. Perls (1947, 213) “La maggior parte della nostra capacità mentale consiste in immagini e parole, l’inconscio ha più affinità con le figure, la mente conscia con le parole. Per raggiungere una buona armonia fra l’Io e l’inconscio dovremmo avere il maggior controllo possibile sulla nostra visualizzazione”. Come infatti è utile lavorare sulla corrispondenza tra pensieri ed immagini, così è utile saper evocare le immagini stesse magari a partire da emozioni, sensazioni o anche la esercizi attivatori, come si deriva da un altro passo. “Frequente è l’abitudine inconscia di escludere le immagini con l’aiuto della contrazione intensa dei diversi muscoli oculari. Le immagini riappariranno quando si rilassano tali contrazioni (Perls, 1947, 213). Una delle prerogative del lavoro gestaltico sta infatti nella evocazione immaginale, un atteggiamento che rappresenta più che una semplice tecnica e che si avvale ovviamente di metodi specificamente mirati a dare voce (o meglio immagine) ai contenuti di coscienza. L’affinamento di tale pratica consente di avere accesso ad una risorsa di grande valore anche in assenza di produzioni oniriche. L’identificazione con il contenuto immaginale, cui si associa generalmente una specifica tonalità emozionale, consente di lavorare sui processi primari in presa relativamente diretta e prima che tali contenuti vengano canalizzati attraverso filtri (spesso preconcetti) di carattere cognitivo che ineriscono i processi secondari.
Dall’interpretazione alla maieusi del percorso esperienziale “Sarò con te. Tu farai quello che ritieni necessario” soleva ripetere Perls (da Baumgardner, 1975, 41) specificando come “uno dei nostri principali obiettivi è quello di consentire al paziente di fare delle scoperte: scoprire, quando vuole, alcune parti di Sé e il suo potere, che sono per lui estranei e irraggiungibili” – e ancora – la scoperta è il centro del processo della crescita, l’essenza della psicoterapia. Il ruolo del terapeuta è quello di facilitare non di insegnare; di ‘essere con’ non di imporsi”. Essenziale in questo processo, affinchè il risveglio della coscienza sia reale – Perls lo chiamava il fenomeno della “ah, ah experience” – è che il vissuto si manifesti nella sua intrinseca dimensione olistica e non limitatamente ad una insight intellettivo, ad una possibilità di afferramento (ergreifen dei fenomenologi) del concetto. E nessun accadimento della coscienza può avvenire se non nel paziente. Sua deve essere, auspicabilmente, la scoperta. A lui conservare la gioia, seppure dolente a volte, della epifania, della autorivelazione del quid novi che dal fondo indistinto della coscienza emerge alla luce più definita e chiara dell’evidenza. Per favorire questo emergenza la pratica della interpretazione si presenta non sono inutile ma francamente controproducente. E’ come risolvere un problema di matematica ad un bambino che ha difficoltà ad organizzare il problem solving. Sostituirsi all’interessato, in questo percorso di ricerca, significa frustrare le potenzialità latenti di ricerca, di autonomizzazione, di gioia e di conquista di una verità che gli appartiene dal momento che concerne essenzialmente la sua verità, l’autenticità delle sue emozione e vissuti. La pratica dell’interpretazione, specie se usata in modo inopportuno, mira più a gratificare il narcisismo del terapeuta che ama sfoggiare la sua conoscenza e capacità intuitiva proponendola – se non imponendola – al paziente che non a promuovere una più adulta maieusi Non si tratta quindi di rivelare, novelli aruspici, le verità che riguardano le segrete cose della persona quanto di creare quelle condizioni favorevoli affinchè il processo dell’auto-svelamento e quindi, potenzialmente, dell’autoguarigione possa svilupparsi.
Intellettualismo e contatto diretto
Il tentativo di de-intellettualizzare un procedimento conoscitivo ha sempre un aspetto paradossale dal momento che la comprensione, comunque, implica il coinvolgimento della mente. Fenomenologia esistenzialismo, Tao e Zen rappresentano forse i tentativi più sistematici di superamento della dimensione intellettualistica della conoscenza. Non vi è dubbio, tuttavia, che il sapore di tale caratteristica può essere colto solo da chi ne possiede una diretta esperienza. Al di là di considerazioni di carattere filosofico e per restare aderenti al tema della psicoterapia “Nutrire una persona che soffre di un eccesso di intelletto e di un deficit di sentimento con ancor più intelletto, ad esempio le interpretazioni, è un errore tecnico. Per dissolvere un sintomo nevrotico nell’organismo di una persona si ha bisogno della consapevolezza del sintomo in tutta la sua complessità, non di un’introspezione intellettuale, né di spiegazioni” (Perls, 1947, 241). Ne consegue un procedimento terapeutico più orientato allo stare con il vissuto che non a trasporlo frettolosamente entri schemi concettuali. Scarna ed essenziale è la definizione di Perls “La nostra tecnica non è un procedimento intellettuale. La tecnica nuova sviluppata in questo libro è semplice in teoria: il fine è di riguadagnare il “sentire se stessi”, ma il raggiungimento di questo fine è, a volte, molto difficile”.
Il vuoto fertile
Questo concetto non è facilmente definibile. Dando la parola a F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, (1951, 94-95) “L’individuo capace di tollerare l’esperienza del vuoto fertile, sperimentando fino in fondo la propria confusione e che riesce a diventare consapevole di tutto quanto richiama la sua attenzione (allucinazioni, frasi interrotte, sentimenti vaghi, strani) avrà una grande sorpresa, vivrà probabilmente un’esperienza “Ah, ah!”; all’improvviso apparirà una soluzione, un insight fin ad ora inesistente, un lampo di comprensione o percezione”. In tale attitudine confluiscono evidentemente più elementi citati: la fiducia nei processi autoregolativi e autoplastici, l’impostazione maieutica e non intellettualistica. “La maggior parte delle persone crede di risolvere la confusione, le confusioni che appaiono sgradevoli, interrompendole con interpretazioni, speculazioni, spiegazioni e razionalizzazioni. E’ questa la struttura di molti nevrotici, particolarmente intellettuali” (F. Perls 1973, 92). Tale condizione rappresenta il risultato di un addestramento a cui, invero, troppa poca attenzione viene spesso dedicata anche in seno ai tradizionali corsi di formazione. “C’è una sola via attraverso cui possiamo contattare gli strati più profondi della nostra esistenza, ringiovanire il nostro pensiero e raggiungere l’intuizione (l’armonia del pensiero e dell’essere) “Il silenzio interno”. Prima di padroneggiare l’arte del silenzio interno, comunque, bisogna cercare di esercitarsi ad ascoltare i propri pensieri. Dopo aver padroneggiato l’ascolto interno, potrete procedere all’esercizio fondamentale, quello dell’allenamento del silenzio interiore (F. Perls, 1947, 225).
La teoria del Sé
Il termine self o Sé, per utilizzare il termine italiano che traduce in modo non soddisfacente quello inglese, e la teoria che a questo concetto si riferisce, rappresenta una specie di colonna vertebrale, riprendendo un’espresione di S. Ginger (1987, 215), un modello denso di implicazioni feconde e chiarificatrici. Ciò nonostante non può sfuggire come la Gestalt si sia inserita in modo insufficiente nel panorama scientifico culturale degli ultimi decenni e come pochi siano stati i contributi e gli sviluppi di rilievo seguiti alle straordinarie intuizioni ed alla altrettanto straordinaria opera di sintesi operata da Fritz Perls e dai suoi primi collaboratori. Dove la Gestalt ha prodotto frutti innovativi e fecondazioni è stato spesso al di fuori dell’ambito propriamente gestaltico, come giustamente sottolinea J. Marie Robine (1987). Importanti acquisizioni si sono avute inoltre nel campo dell’agire terapeutico attraverso l’integrazione di concetti e metodologie di lavoro derivate da altri orientamenti e tradizioni (in particolare dall’approccio sistemico nel lavoro focalizzato sulle relazioni individuo-ambiente familiare o sociale dalle tecniche di lavoro sul corpo e dalle pratiche di consapevolezza), mentre una vera evoluzione del patrimonio teorico, pur così vasto nei presupporti dell’impianto gestaltico, lascia a desiderare. Perls intende con il termine self, o Sé, una connotazione di sintesi rispetto alle tre funzioni che lo connotano – Es, Io e Personalità – e sottolinea come l’uso del pronome riflessivo esprime non a caso l’attitudine attivo-passiva della modalità-di-essere-nel-mondo di un organismo in perenne interazione con l’ambiente in cui è immerso. Attualmente assistiamo ad un vivo interesse per quella che viene chiamata la Psicologia del Sé intendendo con questa dizione filoni di ricerca assai distanti tra loro. E’ mio parere che molte delle intuizioni innovative che compaiono in questi lavori più recenti, trovino importanti premesse anticipatrici nelle pagine scritte da P. Goodmann (sviluppate su appunti di Perls) a proposito dei capitoli riguardanti la Teoria del Sé sul testo teorico di base Gestalt Therapy: Excitement and Growth in Human Personality del 1951.
Cosa si intende per self o Sé
Il Sé, nella concezione della Gestalt, viene considerato innanzitutto come una funzione (non quindi un’istanza o un apparato psichico nel senso attribuito dalla Psicoanalisi all’Io o all’Es). Più in particolare è la funzione di adattamento creativo (F. Perls, F. Hefferline, P. Goodman, 1951, 433). L’adattamento creativo è il risultato di una complessa interazione tra un organismo ed un ambiente nel contatto reale che tra i due si stabilisce in un luogo ed in un tempo definito. Il Sé quindi, come del resto ogni entità socio/biologica, non può considerarsi in astratto, come un qualcosa di determinato, fisso e atemporale, ma solo in relazione al campo, all’ambiente o sistema al quale appartiene o con il quale comunque interagisce in un dato momento in cui viene preso in considerazione. A questa interazione viene anche dato il termine di contatto (Perls et al. ibid., 434). Il termine sottolinea un aspetto molto concreto, tangibile appunto di questa interazione. Sottolinea, in altri termini, un insieme di operazioni che si riferiscono sì a funzioni anche psichiche (si può avere un contatto visivo, emotivo, di pensiero), ma delle quali si vuole mettere prioritariamente in evidenza il fondamento organico, biologico. “Chiamiamo sé (conservo il minuscolo nella traduzione dall’inglese) il complesso sistema di contatti necessario per l’adattamento in un campo difficile. Si può considerare che il sé si trovi sulla linea di demarcazione dell’organismo, ma la linea di demarcazione stessa non è isolata dall’ambiente; essa è in contatto con l’ambiente, appartiene ad entrambi, all’organismo e all’ambiente (Perls et al. ibid, 436). E ancora (Perls et al. ibid, 436): “Nelle situazioni di contatto il Sé è il potere che forma la gestalt del campo; o meglio, il Sé è il processo della figura/sfondo nella situazione di contatto. Il senso di questo processo formativo, il rapporto dinamico fra figura e sfondo, è l’eccitazione: l’eccitazione è il sentire la formazione della figura/sfondo nelle situazioni di contatto, man mano che la situazione incompiuta tende a completarsi . In ultima istanza il Sé esiste laddove si verificano spostamenti nelle linee di demarcazione del contatto.” La scarsa fortuna avuta da questa teorizzazione, oltre alle motivazioni già citate, sta verosimilmente nell’estrema densità dei concetti e nell’intreccio reciproco degli stessi che non possono essere colti separatamente e in modo statico ma come un tutt’uno.
Aspetti del Sé e analogie con gli apparati psichici freudiani
Mi riferirò solo in sintesi agli elementi costitutivi del Sé che, solo a titolo di menzione, sono l’Es, l’Io e la Personalità nei quali si evidenzia una chiara derivazione dai concetti della impalcatura concettuale freudiana. L’Es, infatti, rappresenta l’insieme più o meno indifferenziato ed irrazionale di pulsioni, eccitazioni organiche, tracce mnesiche relative al passato ed è fortemente connesso con la dimensione corporea. In sintesi può venire considerato il mondo interno nella vasta gamma delle accezioni psico/biologiche che a questo termine possono riferirsi. La Personalità rappresenta il sistema degli atteggiamenti assunti nei rapporti interpersonali. Tale immagine potrà essere più consona e funzionale al nostro modo di essere autentico o, al contrario, il risultato di di un certo numero di concezioni errate di noi stessi, di introietti, di ideali dell’Io di maschere etc. (Perls et al., 1951, 445). Questo avviene appunto nella personalità nevrotica dove si assiste ad una fissazione ad un passato immutabile in cui i vecchi schemi adattivi, pur non rispondendo più alle mutate esigenze dell’interazione con l’ambiente, si riproducono con un automatismo rigido e disfunzionale. L’Io rappresenta la funzione decisionale di scelta/rifiuto in risposta all’emergere di richieste e pulsioni provenienti dal mondo interno od esterno. L’esercizio di una intenzionalità sana, quindi, consisterà nella limitazione consapevole di certi interessi, percezioni e spinte in modo da potersi concentrare su altre, mentre quella nevrotica rappresenterà una serie di autointerruzioni nella possibilità di accondiscendere a stimoli di crescita e di cambiamento a causa di intoppi e di gestalt irrisolte. Queste sottrarranno l’energia necessaria per il passaggio all’azione e il soddisfacimento dei bisogni, l’appagamento dei desideri e delle spinte esplorativo-creative. In quest’ottica (Ibid., 271): “La psicopatologia è appunto lo studio dell’interruzione, dell’inibizione o di altre interferenze nel processo di adattamento creativo. E ancora: E’ a questa frontiera-contatto che gli eventi psicologici accadono. I nostri pensieri, le nostre azioni, i nostri comportamenti, le nostre emozioni rappresentano le nostre modalità di esperienza e di incontro di questi avvenimenti di frontiera”. Pur nella analogia con gli apparati dell’Es dell’Io e del Super-Io è fondamentale cogliere la differenza di impianto teorico nei confronti della Psicoanalisi. In questa, in realtà, la dimensione inconscia viene associata prevalentemente all’Es e quindi alle pulsioni libidico-aggressive e al principio del piacere. La dimensione superegoica, di converso, è all’insegna del principio di realtà e di una strutturale condizione repressiva nei confronti delle spinte istintuali. Tale conflittualità intrinseca, più che legittima considerato il clima culturale del tempo ed espressa con dovizia di considerazioni metapsicologiche da Freud nel Disagio della civiltà, viene superata da una concezione meno pregiudiziale sulla appartenenza di campo dei due apparati in conflitto (piacere-realtà). La progressiva focalizzazione sulla funzione mediativa dell’Io, tra istanze pulsionali e societarie, attraverso i contributi di A. Freud e di Hartmann e più in geneale della Psicologia dell’Io che appunto attorno agli anni ‘40-’50 avevano proposto una evoluzione della primitiva impostazione freudiana, nonchè il clima culturale postbellico americano, tutto proteso verso un’utopia di liberazione da vecchi schemi repressivi hanno senz’altro contribuito a creare quel clima culturale in cui poter riconsiderare il rapporto individuo/ambiente (Es/Super-Io, piacere/realtà) in senso meno contrappositivo e conflittuale. Questa visione consentì una essenzializzazione progressiva dell’impalcatura conoscitiva a favore di un’attitudine fenomenologicamente orientata e tesa alla valorizzazione nel qui ed ora delle risorse in concreto che l’individuo è potenzialmente in grado di cogliere dall’ambiente sempre che meccanismi di interruzione (legati alla sua storia personale più che ad una strutturale impossibilità a star bene) non si frappongano impedendo un’osmosi vitale tra realtà interiori ed esteriori.
Verso un modello rappresentativo del Sé
Il perchè detti concetti siano stati valorizzati così poco ed abbiano stimolato scarse evoluzioni ed approfondimenti successivi non è facile capire. Un elemento che, nella mia esperienza personale, è stato ricco di implicazioni evolutive ed ha rappresentato l’elemento di svolta nella riscoperta di questo impianto teorico è stato collegare detti concetti ed alcuni elementi accennati od impliciti ad un modello rappresentativo che, come vedremo, potrà significare di più di una metafora o di un fenomeno isomorfico. Mi riferisco alla possibilità di rappresentare il Sé, in una versione che considero preliminare, come una membrana cellulare . Questa rappresentazione non è nuova. Trova le premesse negli stessi riferimenti di Perls, di cui quello relativo alla pelle ho riportato, nonchè in allusioni più o meno significative di vari autori. Cito, fra tutti, quella di Serge Ginger che, accosta il fenomeno della frontiera/contatto tra l’individuo e il mondo alla funzione della pelle nell’individuo e a quello della membrana cellulare in un organismo unicellulare ravvedendovi dei parallelismi frappants con i temi sviluppati nella teoria del Sé (Ginger, 1978, 216). Tale analogia viene sottolineata con forza ed ampio corredo di riferimenti bibliografici anche da uno psicoanalista tra i più penetranti ed aperti degli ultimi decenni. Mi riferisco a Didier Anzieu che su questo tema ha pubblicato nel 1985 un libro dal titolo appunto L’Io pelle. Questa derivazione rappresenta la possibilità di ricondurre i tanti fenomeni biopsichici ad uno schema unitario ed elementare che fornirà un’utile griglia di collegamento tra tanti fenomeni attualmente considerati in modo disarticolato e poco organico. Una critica che, di primo impatto, può essere avanzata ad un procedimento di questo tipo è il pericolo di operare abusive estrapolazioni tra fenomeni qualitativamente distinti quali sono gli accadimenti biologici e quelli psichici. In realtà, sempre per citare Anzieu: “Uno dei principi fondamentali della psicoanalisi è che ogni attività psichica si appoggia su una funzione biologica. L’Io-pelle trova il proprio appoggio sulle funzioni della pelle”. Questo tipo di impostazione, comune a quanti si sono dedicati alla ricostruzione delle prime fasi del funzionamento psichico, è del resto condivisa dallo stesso Perls che non manca di ribadire, ad ogni piè sospinto, quanto le funzioni psichiche non possano in alcun modo essere distinte e scisse da una originaria dimensione organismica quale che sia il livello di funzionamento emergente (Perls et al., 1951, 436): “Il contatto consiste nel toccare, nel toccare qualcosa. Non si deve pensare al Sé come ad un’istituzione fissa; esso esiste ogniqualvolta e dovunque vi sia nei fatti un’interazione sulla via di demarcazione”. E ancora Anzieau: “L’esperienza si verifica ai confini tra l’organismo e il suo ambiente, fondamentalmente nell’epidermide e negli organi di risposta sensoriale e motoria “(ibid. 267). Tale impostazione, a ben vedere, rappresenta un’acquisizione strutturale del pensiero psicoanalitico e dello stesso Freud, seppure l’attenzione prevalente si sia orientata nei fatti a dare maggiore risalto ai contenuti mentali e fantasmatici degli apparati psichici anzichè alla loro inscindibile derivazione ed interconnessione con i presupposti biologici. A tale matrice biologico-organismica la Gestalt tende a ricollegarsi nel pensiero di Perls.
Le premesse freudiane sul concetto di barriera-contatto
L’opera Progetto per una psicologia del 1925, Freud elabora una nozione di barriera/contatto (kontaktsschrank) che in seguito non utilizzerà più in alcuno dei suoi testi successivi. Vi si fa riferimento al tipico aspetto paradossale di una barriera che ferma o attenua il passaggio di informazioni come pure di struttura predisposta a rendere possibile il contatto ed il passaggio delle informazioni stesse. Anche se Freud non parla di involucro accenna tuttavia ad una struttura con due strati (Freud, 1895, Op. 2, 202). Uno deputato elettivamente alla funzione di protezione-separazione-barriera (in analogia alla membrana cellulosica dei vegetali, alla pelle o pelliccia degli animali) ed uno alla funzione di contatto/comunicazione (quello più interno e dotato di recettori diversificati e recettivi ad una gamma assai ampia di informazioni). La funzione di barriera/contatto viene ancora identificata sia in relazione a stimoli esterni che interni. Quest’ultima, definita periferia interna del corpo (korperinnerperipherie), ci mette in contatto con le pulsioni interne allorchè le stesse investono di energia (libidica) la superfici recettive evocando le rappresentazioni mentali. L’Io funziona quindi come un’interfaccia tra mondo esterno e mondo interno. Tale concetto viene ripreso in un passo di Al di là del principio del piacere del 1920 dove l’apparato psichico viene assimilato ad una vescicola protoplasmatica in cui il sistema percezione/coscienza, analogo all’ectoderma cerebrale, vi è descritto come scorza. La sua posizione al confine tra l’esterno e l’interno gli permette di ricevere le eccitazioni dai due lati (Freud, 1920, tr. it. Op. 9, 482). Puntuale, al riguardo risulta l’impostazione di Perls: “Il contatto è essere presente in ambedue le situazioni. Per semplificare: farcela è essere in contatto con la ZE (zona esterna, l’altro, l’ambiente); arretramento è entrare in contatto con ZM (zona mediana), o addirittura ZI (zona interna o zona del Sé)” (Perls, 1969, 121). Così si esprime in In and Aut the Garbage Pail a proposito di una situazione in cui sente di tener conto di esigenze interne, nella fattispecie la stanchezza per lo sforzo di applicarsi allo scrivere, ed esigenze esterne. A tali zone, esterna ed interna, Perls da la sigla di ZE e ZI. Fra le due individua la zona mediana, o ZM, che indica come mente. “In questa zona – precisa – immagino, parlo a livello subvocale, chiamato spesso pensare; ricordo, pianifico, recito. So che sto immaginando eventi passati. So che non sono reali, ma immagini. Se pensassi che fossero reali sarebbe un’allucinazione, cioè incapacità di distinguere la realtà dalla fantasia. Che è il sintomo principale della psicosi”.
Contatto e operazioni di confine
Al di là della carente sistematizzazione teorica, resta l’originalità della intuizione di fondo che, nella sua apparente elementarità, offre tuttavia una traccia di diagnosi-terapia centrata su quella che può legittimamente presentarsi come l’essenza dell’intervento psicoterapico stesso: la valutazione delle interferenze ed il sostegno a funzionali operazioni di confine nell’interazione individuo/ambiente, dando a quest’ultimo, ovviamente, tutto il suo significato pleniore non solo di ambiente fisico, ma di relazioni interpersonali, di sistema di valori, di norme e di significati in cui a vari livelli l’individuo è immerso. Tale confine, inoltre, non riguarda soltanto l’interfaccia che lo connette al mondo esterno, ma anche quella che lo connette con il mondo interno. L’Io/mente (sede della consapevolezza, del pensiero riflesso, delle operazioni di memorizzazione/proiezione nel futuro, delle scelte di assimilazione/alienazione) si trova quindi a muoversi (a fare lo shuttle o spola, come viene detto altrove) all’interno di una interfaccia e ad operare le scelte di mediazione all’interno di una polarità collegata i due opposti confini di interazione. Per questo motivo, personalmente, preferisco parlare di duplice contatto (mondo interno/mondo esterno), come chiave di volta per significare il costante lavoro di adattamento creativo dell’individuo-organismo nei rapporti con l’ambiente non solo esterno, ma anche interno. E’ propriamente all’interno di questa funzione mediativo/creativa che si dispiega la gestaltung, la proprietà cioè di inventare sempre nuove forme adattive, di originali combinazione di elementi in gioco e di configurare nuove soluzioni al mutevole declinarsi degli elementi spazio-temporali del reale-oggettivo nell’incontro con il reale-soggettivo. L’insieme delle funzioni Io, Es (mondo interno) e Personalità (mondo esterno) esprime la funzione di frontiera/contatto nel suo insieme cui diamo per convenzione il termine di Sé.
La membrana-Se’ e le sue funzioni
Dove Freud, ed anche Perls, si fermano, in realtà, è nell’individuare come preminenti i fenomeni di frontiera/contatto nell’interazione individuo/ambiente, senza tuttavia dare al fenomeno la sua configurazione ultima e conseguente: quella di richiamare più esplicitamete il concetto di membrana-pelle e cioè di una entità che non rappresenta solo una metafora, una possibile rappresentazione, ma un reale modello epistemologico, una autentica premessa organismica delle modalità di interazione/contatto tra un individuo, quale sia il suo livello evolutivo, e l’ambiente in cui si muove (Zerbetto, 1991, 109). E’ come se della membrana cellulare – che per trasposizione sul versante psichico chiamiamo Sé – si osservassero le funzioni in un segmento particolare perdendo di vista la sua configurazione generale che definisce essenzialmente i rapporti di distinzione/comunicazione dell’organismo con l’ambiente in cui è immerso. Ci si ferma a studiare i contenuti o alcune modalità operazionali di questa funzione biologica (che diventerà anche psichica attraverso stadi progressivi di sviluppo del sistema economico di rappresentare i dati di realtà imparando a manipolare rappresentazioni, simboli e concetti anzichè oggetti reali) senza vederne l’aspetto non meno importante di contenitore. In realtà, sempre per citare Freud da “l’Io e l’Es” (Freud, 1923, tr. it. 9, 400) “l’Io deriva dalle sensazioni corporee, soprattutto da quelle che provengono dalla superficie del corpo. Lo si può considerare come la proiezione mentale della superficie del corpo… (e ancora) L’Io cosciente è prima di ogni altra cosa un Io-corpo (Korper-Ich)”. Puntuale il commento di Anzieu (1985, 108) che ne deriva come: “La coscienza appare così alla superficie dell’apparato psichico, meglio ancora, essa è questa superficie”. Una rappresentazione di tale tipo non può stupire, ed anzi trova una puntuale conferma embriogenetica, se si pensa che il sistema nervoso altro non è che una derivazione dal primitivo foglietto germinativo dell’ectoderma. Tutti gli organi di senso, nonchè la vasta gamma di sensibilità possedute dall’apparato cutaneo, parimenti, sono delle differenziazioni dello stesso foglietto germinativo che si specializzano nel cogliere determinate energie vibrazionali (luce, suono), composti chimici (sapori, odori) vibrazioni, pressioni fisiche, calore, stimolazioni dolorose, etc (Zerbetto, 1991, 118). Tutto lo sviluppo del sistema nervoso, centrale e periferico, va considerato, in quest’ottica, come un sofisticato apparato di interconnessione ed elaborazione delle afferenze provenienti dal mondo esterno ed interno. Tra questi due mondi, o ambienti, la funzione elaborativa della psiche dovrà rinvenire quelle corrispondenze che offrano maggiori possibilità di incontro e contatto (se valutate come positive alla crescita dell’organismo) o, al contrario, quelle difese che rappresentino una valida barriera protettiva (se valutate negativamente). Tale perimetro/contenitore, sede di percezioni e di consapevolezza, non è ovviamente un’entità statica, ma plastica, elastica, percorsa da attivazioni energetiche mutevoli e rispondenti ad attivazioni di campo esterno ed interno secondo il modello della dinamica figura/sfondo, della autoregolazione organismica, della proprietà di riorganizzazione autoplastica della materia in generale e delle strutture neuronali in particolare secondo un’impostazione propria della concezione gestaltica e che è stata ripresa e suffragata da fondamentali contributi neurofisiologici e di teoria della conoscenza da scuole di pensiero recenti (Eccles J., 1977, Freeman W, 1981, Maturana H. e Varela F., 1984, Prigogine I., 1984, Edelman G., 1988, etc.). Gli stessi orifizi: bocca, ano, vagina (e pene in quanto aspetto estroflessivo di un corrispondente aspetto introflessivo rappresentato dalla guaina vaginale) così approfonditamente investigati nell’impostazione freudiana e ripresi da E. Glower neLa nascita dell’Io (tr. it. 1970), altro non sono che vie privilegiate di comunicazione interno/esterno che vengono attivate elettivamente in fasi particolari della vita dell’individuo. Si presentano cioè come localizzazioni di sovrainvestimento energetico, come figura emergente dallo sfondo dell’eccitazione diffusa e distribuita ubiquitariamente sulla superficie di contatto dell’intero organismo (membrana cellulare o pelle nel caso di un organismo filogeneticamente più evoluto). L’Io-pelle, per usare il termine introdotto da D. Anzieu, o Sé, per usare il termine gestaltico, costituisce la premessa, il veicolo ed il contenuto stesso di quel senso di identità-differenziazione (nei due livelli biologico e psichico tra loro intimamente interconnessi anche se a qualche livello distinguibili) che troviamo definito e a rilievo nell’individuo adulto e sano e, al contrario, precario, incerto, sfocato nell’individuo ancora in formazione o nevrotico. Se infatti ci riferiamo alla teoria del Sé, delle modalità cioè che contraddistinguono il modo-di-essere-nel-mondo di un organismo-individuo osservato, per come viene presentata da P. Goodman, troviamo come l’attenzione viene posta specificamente sui cosiddetti fenomeni di confine tra lo stesso, appunto, ed il mondo con cui interagisce. Tali modalità interattive sono state raggruppate in un numero limitato di possibilità osservabili e che, notoriamente, nel linguagio della Gestalt sono essenzialmente: la confluenza, l’egotismo, la introiezione, la proiezione, la retroflessione. e la proflessione L’egotismo, in realtà, viene trascurato sia da Perls, che da Latner (1972) che dai Polster (1986), mentre viene evidenziata da questi ultimi la deflessione. Tali modalità di interazione organismo/ambiente sono state variamente denominate dai diversi Autori. I termini più correnti sono di meccanismi nevrotici o perturbazioni nevrotiche alla frontiera-contatto (F. Perls), perdita della funzione Ego (P. Goodmann), resistenze (E. e M. Polster), disordini del self o interferenze nella consapevolezza (J. Latner), interruzioni (J. Zinker), meccanismi nevrotici di evitamento (M. Petit). Personalmente, dopo essermi confrontato a lungo con le stesse difficoltà, mi sono ritrovato a mio agio con il termine didisturbi della funzione di contatto laddove quest’ultima è sinonimo di Sé. Laddove non si voglia enfatizzare l’aspetto disfunzionale, parlo di funzioni del Sé o operazioni di membrana attribuendo a quest’ultima, ovviamente, un’accezione più ampia di quella riservata ad un organismo unicellulare (Zerbetto, 1991, 131). Rifacendoci infatti alla tripartizione proposta da F. Perls in Zona Interna, Esterna e Mediana, propongo il completamento dello schema grafico che possiamo derivarne sotto forma di una figura delimitata da un perimetro che la definisce nella sua interezza. Ovvio ed intenzionale appare l’accostamento di immagini con un organismo unicellulare provvisto di membrana. L’immagine, come ho accennato, non è fine a se stessa. Può infatti costituire un valido supporto per meglio rappresentarci i fenomeni di interazione organismo/ambiente, cui precedentemente abbiamo fatto cenno, e che possiamo ridefinire funzioni di membrana o del Sé (Zerbetto, 1991, 131). Personalmente preferisco riferirmi al concetto di membrana, anzichè a quello di pelle privilegiato da Anzieau, dal momento che la prima rappresenta la struttura originaria di un entità vivente e biologicamente distinta dal mezzo ambiente. Rappresenta quindi un modello più semplice e nello stesso più universale, rispetto ad una successiva evoluzione, sotto forma di pelle, che caratterizza gli organismi più evoluti ed in particolare l’uomo. In realtà la pelle acquista un significato assai più specifico e pregnante in riferimento alle fasi di sviluppo dello psichismo ed in particolare di quello umano. Un primo corollario che deriva dalla possibilità di usare questo modello, ci porta a considerare la prerogativa fondametale di ogni membrana, per essere funzionale alla vita biologica, e cioè di essere semipermeabile. Una eccessiva permeabilità esporrebbe infatti l’organismo ad assimilare sia elementi buoni che nocivi dall’ambiente, mentre una impermeabilità altrettanto indiscrimnata non consentirebbe quella molteplicità di scambi (gassosi, liquidi, solidi, onde sonore e luminose) indispensabili al suo adattamento e alla sua crescita. Tale considerazione ci porta ad individuare nelle due modalità estreme, della iper o della im-permeabilità di membrana, la polarità fondamentale entro cui le funzioni discriminative si debbono muovere per assolvere efficacemente alla funzione fondamentale di frontiera/contatto, dove frontiera sta per separazione, blocco nel passaggio di elementi concreti o informazioni e contatto sta per facilitazione al passaggio degli stessi. Prima di scendere tuttavia nell’esame più dettagliato delle funzioni di membrana, ritengo utile proporre uno schema elementare in cui si rappresentano tutte le possibilità elementari di interazione organismo/ambiente (O/A). Ripercorrendo i classici modi di funzionare del Sé o accadimenti al confine (frontiera/contatto) tra un mondo interno (organismo-individuo) ed un mondo esterno (ambiente) ed utilizzando il modello della membrana semipermeabile abbiamo una serie di schemi che propongo nelle figure seguenti, dove sono presentati in sintesi. Nella confluenza, la membrana è iper-permeabile. Questa condizione è fisiologica e vitale nelle fasi precoci di crescita del feto e del bambino piccolo che, come sappiamo, non ha raggiunto neppure a livello biologico-tissutale un sufficiente livello di differenziazione dalla madre al punto di avvalersi degli anticorpi fornitigli dalla stessa per combattere elementi patogeni estranei. Tale recettività indiscriminata si renderà disfunzionale allorchè l’organismo sarà immerso in un ambiente negativo (presenza di sostanze nocive, fattori disturbanti di diverso tipo: concreto, emozionale, valoriale etc.) dai quali l’organismo-individuo non sia in grado di difendersi-diferenziarsi-individuarsi attivando l’elemento frontiera della polarità strutturale del Sé frontiera/contatto. L’egotismo, in quanto possibilità di chiusura selettiva, è quindi fondamentale alla crescita dell’individuo e trova riscontro clinico puntuale in molteplici circostanze e fasi evolutive: la capacità di dire no, individuata da Spitz (1965) attorno ai 6 mesi, di differenziarsi quindi dalla fase simbiotica con l’ambiente materno (Mahler, tr. it. 1978), lo sviluppo della capacità aggressivo-competitiva tesa a lottare per il proprio territorio vitale in senso ampio e a difenderlo da possibili invasioni, gli atteggiamenti oppositivi tipici della condotta adolescenziale tesa a demarcare i confini del Sé e la propria identità sessuale, cultuale e sociale e così via. In questo caso, un atteggiamento egotistico positivo può evolversi in negativo allorchè si produca un atteggiamento cronico ed irrigidito di chiusura al mondo esterno con perdita della funzione Io, della possibilità cioè di discriminare gli stimoli ed attuare le scelte più idonee all’organismo/individuo. Questa è una condizione che si presenta puntualmente in persone esposte ad ambienti non ospitali e quindi potenzialmente pieni di pericoli – reali o fantasmatici – per la sopravivenza (mancanza di calore, sicurezza, cibo e riconoscimento) riassumibili nel concetto di ambiente primario favorevole o di madre sufficientemente buona di Winicott (1962). Nel caso di un’attitudine egotistica, si tratterà di sostenere il processo di consapevolezza che rimandi ai vissuti in cui il paziente scelse, seppure ad un livello inconsapevole, di difendersi disperatamente e sistematicamente da ogni elemento del mondo esterno e farlo confrontare con la non-attualità della stessa situazione. Lo scollamento dell’esperienza precoce dalla presa di coscienza nel qui e ora di elementi di realtà possibilmente mutati, sosterrà il percorso di un progressivo allentamento delle chiusure difensive ed un’attitudine progressivamente più recettiva e disposta ad accogliere il diverso e il nuovo liberando le energie dell’eccitazione e dell’arricchimento che inevitabilmente accompagnano una permeabilità più osmotica con l’ambiente. Pur avendo parlato dell’egotismo, subito dopo la confluenza è l’introiezione a seguire la confluenza nel percorso evolutivo. La indiscriminata recettività rende possibili infatti ogni sorta di introiezione. Le stesse, evidenziano, su un piano di realtà ed anche metaforico, una prima fase in cui l’introietto viene accettato completamente (fase dell’allattamento) ed una in cui il soggetto supera una posizione recettivo-passiva per sviluppare progresivamente un’attitudine aggressivo-attiva (dentizione, masticazione, digestione di cibi che comportano un maggiore lavoro di assimilazione, ricerca attiva degli oggetti (cibi-oggetti-persone) per soddisfare bisogni e desideri. Anche gli introietti (e l’operazione che li consente) possono quindi essere sia buoni che cattivi. L’introiezione di una buona madre, come sappiamo, rappresenta la condizione fondamentale per sviluppare quel senso di sicurezza basale di autocontenimento/autoappoggio, di identità primaria che renderà possibile il superamento della prima fase simbiotica e quindi la possibilità di tollerare l’angoscia di separazione e di proseguire nel processo di individuazione. Analogo discorso può farsi per la figura paterna come elemento strutturante e normativo che favorisce il percorso dal sostegno ambientale all’autoappoggio collegato all’acquisizione dell’indipendenza emotiva, dell’acquisizione di abilità pratiche e conoscitive, dello sviluppo di una sufficiente attitudine aggressivo-manipolativa sul mondo esterno. Introietti negativi del tipo “sei un buono a nulla”, “diffida di tutti” o gli infiniti altri che l’esperienza quotidiana, oltre che clinica, ci fanno incontrare sono alla base di condizionamenti che limitano in modo più o meno grave la possibilità dell’individuo a crescere, fare esperienze, aricchirsi, sviluppare le capacità discriminative e di scelta per realizzare un Sé (osmosi individuo/ambiente) funzionale, capace quindi di eccitazione e di crescita. Un radicato introietto negativo del tipo “non valgo nulla” mi renderà indisponibile ad introiettare un messaggio di apprezzamento, mentre un introietto sufficientemente positivo del tipo “valgo qualcosa” mi immunizzerà da un insulto svalorizzante. Nella retroflessione la chiusura di membrana non è tanto in entrata, come nell’egotismo, quanto in uscita nella direzione individuo/ambiente. Anche qui la connotazione può essere positiva o negativa sempre in rapporto ad una interazione e mai astraendo la funzione dal contesto spazio/temporale (storicizzazione) in cui avviene. L’individuo che retroflette traccia una linea di confine fra Sé e l’ambiente e la traccia nettamente. Egli tratta se stesso come originariamente voleva trattare altre persone o oggetti e dirige le sue energie non più all’esterno nel tentativo di manipolare l’ambiente per soddisfare i suoi bisogni, ma all’interno sostituendo come bersaglio del comportamento se stesso all’ambiente. Mentre un esercizio sano della retroflessione consente di contenere impulsi per dilazionarne l’espressione in tempi e situazioni che ne consentano un più efficace soddisfacimento, una cronica attiutudine a retroflettere comportarà una ritenzione abituale dei propri bisogni con conseguenti comportamenti autoinibitori che ostacoleranno una più più sana osmosi tra bisogni dell’individuo e possibilità di contatto con le risorse dell’ambiente. Il tentativo di rappresentarla graficamete la proiezione è reso più difficile dal maggiore elemento smbolico/fantasmatico cui tale operazione generalmente si accompagna. A tale livello, l’aspetto positivo consiste nella capacità, propria degli esseri maggiormente evoluti, di pevedere e di anticipare i comportamenti dell’altro grazie alla possibilità di mettersi nei suoi panni e di rappresentarsi il mondo visto con i suoi occhi (identificazione proiettiva). Questo tipo di attitudine, posseduta anche da animali più evoluti che ne dispongono per apprendere efficaci comportameti di predazione e di conquista sessuale, si è enormemente sviluppata nell’uomo, sostenuta dalla intrinseca hilflosichkeit (impotenza primitiva) di essere cioè totalmente incapaci di autonomia e quindi in balia quindi di eventi esterni minacciosi ed imprevedibili. A questa funzione dobbiamo anche la capacità di elaborare inferenze sul pensiero altrui e di destreggiarci nelle intricatissme trame delle manipolazioni mentali nostre e altrui. Questa straordinaria dotazione positiva si trasforma in operazione disfunzionale allorchè il soggetto proietta all’esterno non tanto il riconoscimento di qualcosa che è anche proprio, ottenendo la possibilità di conoscere e rappresentarsi l’altro-da-Sé ma proietando sull’altro-da-Sé una parte di Sé che disconosce alienandola. Tale disappropriazione di parti di Sé deriva generalmente da introietti disfunzionali. Un introietto negativo relativo all’aggressività e alla legittimità di esprimere con vigore le proprie emozioni e di difendere i propri diritti vitali, ad esempio, potrà portare una persona a non riconoscere come propria l’emozione repressa. Questa oprazione, lungi dal far scomparire l’emozione stessa, la sovrainveste di un’energia che tende a proiettarsi su un elemento esterno in qualche modo collegato al tema in oggetto. Il soggetto diverrà, ad esempio, fobico per l’aggressività altrui amplificando la percezione passiva della stessa e strutturando una concezione cronica di sentirsi vittima a confronto di un mondo sempre più minaccioso. La processualità verso il delirio di persecuzione sarà quindi avviata. A tali operazioni, che rappresentano quelle meggiormente approfondite, se ne sono aggiunte più di recente altre due. La proflessione (un misto di proiezione e retroflessione), proposta da S. Crocker (1981, 13) come: “manovra in cui qualcuno fa ad un’altra persona qualcosa che vorrebbe gli fosse fatto”. Nell’elaborazione alla luce delle operazioni di membrana-Sé, può definirsi anche come l’opposto della retroflessione in quanto eccessiva permeabilità in uscita (con i corollari clinici della impulsività, dell’incapacità a trattenere e quindi a dilazionare il soddisfacicmento delle esigenze interne). Infine la deflessione, definita dai Polster (Polster E. e M., 1986, 85) come: “manovra per distogliersi dal contatto diretto. E’ un modo di togliere il calore al contatto attuale, per mezzo di circonlocuzioni, parlare troppo, ridere su ciò che si dice, non guardare direttamente la persona con cui si parla, essere astratti piuttosto che specifici … parlare su piuttosto che parlare a e banalizzare l’importanza di cò che si è appena detto”. I limiti di spazio per questa esposizione non consentono di estendere le considerazioni alle applicazioni cliniche e alla pratica della psicoterapia. La motivazione principale a riservare a tale argomento uno spazio più ampio è nato dal tenattivo di ricondurre i quadri psicopatologici e, ancor più in generale, i diversi modi-di-essere-nel-mondo ad un modello semplice, universale ed epistemologicamente fondato su premesse di carattere biologico/organismico. Lo stesso termine di contatto, infatti, da premesse di carattere più biologico (contenimento del feto nell’utero materno nello holding) si allarga a cerchi concentrici interessando non più il solo tatto cutaneo e il gusto ma anche i telerecettori (olfatto, suono, luminosità) come infine i codici simbolici (immagini, linguaggio) sino a spaziare su possibilità di incontro sempre più ampio e sofisticato.
Il modello dell’intervento terapeutico
Il modello di riferimento, alla luce delle premesse qui richiamate, consiste nel favorire delle condizioni in cui il processo di crescita, eccitazione, ad-gressività (come passaggio da una posizione orale e passiva ad una posizione più responsabile ed attiva) venga ripristinato. Anzichè interpretare detti contenuti scissi – che possono esprimersi attraverso il sogno, sintomi di conversione somatica, incongruenze mimico-gestuali, comportamenti di cui il soggetto «si sente agito» o fenomeni dispercettivi di vario tipo – la Gestalt propone un percorso esperienziale di graduale appropriazione ed integrazione delle parti scisse. L’importanza delle emozioni viene sottolineata da Perls: “Le emozioni sono il linguaggio stesso dell’organismo; modificano l’eccitazione basilare a seconda della situazione da affrontare. L’eccitazione viene trasformata in emozioni specifiche, e le emozioni vengono trasformate in azioni sensoriali e motorie. Le emozioni producono le cariche energetiche e mobilitano i modi e mezzi per soddisfare i bisogni” (Perls, 1973, p.33). Anche se oggi si comporta in un certo modo a causa di eventi passati, le sue difficoltà attuali sono connesse al suo agire oggi. Le questioni insolute del passato gli ostruiscono la strada del presente e, mediante la terapia, gli viene data la possibilità di far riemergere tali confitti e di esplorare modalità diverse per affrontarli. In tale processo si tratta di mettere in opera una serie di operazioni che favoriscano il ripristino di un flusso vitale evolutivo nel paziente. Noi siamo noi stessi, tutti noi stessi in ogni gesto, in ogni azione, ogni menzogna, ogni interruzione autoimposta. Importante è acquistarne consapevolezza, appropriarci responsabilmente di chi siamo e di cosa facciamo e chissà, se lo scegliamo, mutare i nostri schemi ripetitivi ed insoddisfacenti. E il lavoro terapeutico è identificare blocchi, sciogliere nodi, aprire circoli viziosi, canalizzare energie intrappolate, integrare dialetticamente vissuti conflittuali, scoprire le carte di un dialogo tra oggetti interni, trasformare distruttività in aggressività e desiderio, riappropriarsi di parte amputate di noi stessi e che premono dolorosamente contro barriere e censure che ci siamo imposti, è scoprire nell’istinto di morte il volto di un più vasto istinto per la vita, è sopravvivere al distacco, imparare l’amore di sè che comprende gli altri e ancora la scoperta dell’altro, è riconoscersi in entrambe le polarità che ci inducono all’ambivalenza senza presumere di poterne negare una. Ancora è ristrutturare una politica di investimenti produttivi, fare delle scelte, permettersi di sbagliare, accettare la propria età emotiva per quello che è e l’aspetto perverso e polimorfo della nostra persistente sessualità infantile. E’ fornire strumenti di comprensione e consapevolezza, accettare il residuo bisogno di dipendenza e di simbiosi per poterla superare avendola in qualche modo soddisfatta, è riconoscersi nei diversi modi e copioni di vita che continuamente agiamo prendendo coscienza di quanto nel presente e nelle scelte ad esso collegate decidiamo di essere soggetti od oggetti di quanto ci riguarda. E’ passare insomma dalla condizione di scissione e di confusione a quello del confronto, della coesistenza e dell’integrazione di elementi che una arcaica concezione manichea ci fa percepire come irriducibilmente contrapposti. Se la terapia è sblocco, sviluppo, crescita, rottura del meccanismo paralizzante, in una parola ricerca di uno spiraglio per la vita che ci liberi dal vicolo cieco, dallo scacco matto allora ogni possibilità va cercata ed affinata. Ecco quindi che il discorso sulle nuove tecniche può vedersi come un modo nuovo di intendere nel suo insieme l’intervento terapeutico e il ruolo del terapeuta. Non potrà comunque esautorarsi, chi si propone come guida di un percorso di crescita esistenziale, dal «cimento dell’invenzione», da un continuo processo di adeguamento che tenga imprescindibilmente conto della specifica persona nello specifico momento e luogo in cui l’incontro si realizza. La capacità di cogliere lo scarto evolutivo inceppato, lo unfinished business o gestalt incompiuta dovrà quindi accompagnarsi alla apertura di un percorso che si avvalga di una gamma sufficientemente ampia di modalità di intervento. Si tratterà, a seconda delle diverse situazioni, di ricondurre il conflitto attuale al trauma originario attraverso tecniche che consentono la regressione e la presentificazione del conflitto agendone il potenziale catartico; di drammatizzare il conflitto tra oggetti interni agendo i diversi ruoli o invitando i membri di un gruppo ad agirli; di evocare l’immagine, la rappresentazione, la gestalt che riveli il come si è qui ed ora davanti a sè e agli altri per agire successivamente la rappresentazione e lasciar sviluppare l’immagine sinchè ci dia compiutamente il suo messaggio. Si tratterà, in altri casi, di ridurre il livello di ansia, il disperato tentativo di controllo sull’ambiente interno ed esterno per sbloccare un vissuto polarizzante, per scoprire un nuovo modo di percepirci nel mondo, per affrontare lavori più settoriali su somatizzazioni o cenestopatie; e ancora di leggere il corpo e lavorare sul corpo per mobilizzare inghorghi energetici e strozzature del flusso vitale; di sviluppare i modi di un linguaggio non verbale per acquisire una maggiore consapevolezza di più immediati livelli di essere e comunicare; di evidenziare sequenze comportamentali infruttuose ed eventualmente rinforzare attitudini più assertive e responsabili. I presupposti teorici della terapia della Gestalt rappresentano uno scheletro (struttura portante solida, ma non per questo immutabile e priva di capacità plastiche che la adattino ad un processo in continua trasformazione) che sottende l’agire terapeutico secondo un’impostazione scrupolosamente esperienziale che per ciò stesso può sfuggire ad un’osservazione sprovveduta e preconcetta. Tali presupposti costituiscono un tutt’uno con un metodo di lavoro costituito da alcune regole essenziali e da una gamma virtualmente infinita di percorsi esperienziali che ogni buon terapeuta saprà creare e ricreare adattandole alle specifiche situazioni di un setting individuale, di gruppo o familiare allo scopo di favorire il processo della consapevolezza dell’integrazione della personalità ed, eventualmente, del cambiamento.
Caratteristiche del contatto e del setting Al setting viene riservata una grande importanza nella terapia della Gestalt. Non nel senso della rigorosa codifica delle modalità in cui la relazione terapeutica debba avvenire, ma nel senso della attenzione da riservare alla interazione con l’ambiente con cui l’individuo osservato interagisce. Essendo il nucleo dell’attenzione clinica l’osservazione delle modalità dell’adattamento creativo, ogni contesto situazionale potrebbe offrire ricche possibilità di osservazione e di conoscenza sul come un certo individuo si declina nel mondo, su come, in altri termini si configura il suo da-sein. Anche se la situazione più consueta propone lo studio del terapeuta in una interazione duale, come la più frequentemente utilizzata, altre configurazioni di setting vengono prese in considerazione. Dove tuttavia l’aspetto della contestualizzazione con l’ambiente, anche in senso umano, viene attivata massimamente è nel lavoro di gruppo. Il setting gruppale rappresenta una situazione privilegiata del lavoro gestaltico, specie in una fase successiva del lavoro terapeutico che generalmente si avvia con l’interazione duale. Setting individuale e gruppale, nella Gestalt, lungi dal contrapporsi risultano ottimamente integrabili e raccomandati. Tale duplicità di setting può realizzarsi o in successione (in genere il lavoro individuale precede quello gruppale, ma può verificarsi anche il contrario) o contemponeamente. In questo caso i terapeuti possono essere diversi o anche coincidere. Spesso avviene che il lavoro di gruppo avvenenga in co-terapia con la auspicabile presenza sia di una figura maschile che femminile allo scopo di garantire un più ampio registro di chiavi di lettura e stili di lavoro. Una peculiarità del lavoro gestaltico sono anche i gruppi residenziali intensivi di due o più giorni. Questa modalità di lavoro di gruppo, spesso chiamata (seppure indebitamente) maratona consente una più profonda immersione nel crogiolo del lavoro gruppale. Una più radicale decontestualizzazione dalle abituali coordinate esistenziali facilita la più chiara emergenza dei modelli stereotipi ed irrigiditi di condotta ed offre maggiori possibilità per sperimentare modalità di interazione ed autopercezione alternative. In gruppo sono possibili attivazioni di processi terapeutici di ampio respiro. Non è infrequente lavorare su un sogno o su una dinamica interattiva per più ore o anche per un giorno intero, con possbilità di arricchire l’approfondimento della gestalt in oggetto attraverso l’apporto dei membri del gruppo che generalmente sono resi attivamente partecipi da parte di un conduttore esperto. Questa prevede il contributo di vissuti di vario genere (ipotesi interpretative, sensazioni, associazioni, attivazione di dinamiche proiettive) che il terapeuta intesserà partendo dal contenuti di partenza e ad essi ritornando senza mai perdere il filo della gestalt primaria e che, auspicabilmente, richiede di essere chiusa o comunque emergere come figura che si stagli più chiaramente da uno sfondo confuso ed indistinto che contraddistingue la condizione di partenza. Dosare il come, il quando e il modo in cui i membri del gruppo possano partecipare più attivamente al processo terapeutico primario, fa parte ovviamente dell’arte e del mestiere che non è facile codificare in parole ma che giustifica, a parere dello scrivente, un’esperienza diretta da parte di coloro che sono interessati a conoscere l’inconfondibile stile del lavoro esperienziale. Tali laboratori (workshops) di ricerca esperienziale comportano ovviamente anche il rischio di una pericolosa estraneazione dal quotidiano e da quegli aspetti di realtà che fatalmente attendono i partecipanti una volta terminata l’esperienza gruppale. La grande potenzialità, implicita in dette esperienze, impone una proporzionata oculatezza da pare del terapeuta cui si richiede una profonda esperienza nel gestire i processi di cambiamento onde evitare rotture o accelerazioni controproducenti sui delicati processi trasformativi. Un setting importante, del pari contemplato nelle terapia della gestalt è quello della coppia, della famiglia, come pure della comunità terapeutica o dell’impresa che tuttavia la doverosa sintesi di questo contributo non consente di approfondire. Riguardo alla durata del trattamento, possiamo dire con G. Yontef (1991, 285) che “ai vari punti del percorso terapeutico il paziente si confronta con la scelta se terminare la terapia o trarne maggior frutto nella direzione di un più approfondito livello di lavoro”. Non si utilizza quindi una contrattualità prefissata rigidamente ma mirata sulle esigenze e aspettative dell’interessato. Il terapeuta sarà ovviamente chiamato a dare la sua valutazione sulla congruità del percorso fatto o prevedibile in funzione delle problematiche esposte.
Criteri diagnostici utilizzati
Le tradizionali griglie di inquadramento nosografico vengono tenute in considerazione dai terapeuti della Gestalt (Delisle 1992, Yontef 1981) anche se una sistematica rivisitazione della psicopatologia alla luce dei principi della Gestalt richiede ancora di essere messa a fuoco. La apparenenza alla prospettiva fenomenologico-esitenziale sostiene tuttavia una diffidenza di fondo sulle possibilità di categorizzazioni che penalizzino la specificità delle singole situazioni cliniche e che, non raramente, si pongono più come stigmate ostacolante che come utile supporto all’agire terapeutico. “Tipicamente, I terapeuti della Gestalt considerano la valutazione ed il trattamento come parti di un procedimento unificato (…) Uno studio attento, sotto il profilo fenomenologico, del processo della formazione del significato della relazione figura/sfondo consente la comprensione dell’organizzazione della personalità (Yontef, 1981, p.275). Le diverse disfunzioni del Sé, cui si è fatto riferimento, rappresentano generalmente la griglia di riferimento per evidenziare il meccanismo evitativo maggiormente utilizzato. Un’altra griglia di lettura frequentemente utilizzata è quella riferibile alla modalità prevalente nell’interruzione nel ciclo di soddisfazione dei bisogni. Abbiamo anche fatto riferimento alle modalità disfunzionali con le quali un soggetto nevrotico incontra difficoltà a fare emergere in figura da uno sfondo gli elementi dotati di maggiore pregnanza nella situazione concreta interferendo con quanto, in condizioni ordinarie, già Wertheimer (1945) così definiva: “Quando la situaizone nel campo organismo-ambiente è pienamente riconosciuta, sia la comprensione del problema che la soluzione diventano più chiari”. Importante, nello stile di lavoro gestaltico, è anche l’uso autodiagnostico che emerge auspicabilmente da un lavoro esperienziale abilmente condotto: la comprensione cioè, da parte dell’interessato, del come si ostacola nel processo dell’adattamento creativo alle emergenti realtà interiori o esterne. “Con il miglioramento di questo ‘sentire’ – asserisce Perls in relazione allo sviluppo della auto-consapevolezza (Perls, 1947, 225) emergerà una conoscenza più profonda, una psicoanalisi delle caratteristiche della vostra personalità”. La rigorosa subordinazione del momento diagnostico a quello terapeutico, inoltre, porta a fare un uso discreto dell’inquadramento diagnostico e comunque ad evitare quanto Ronad Laing additava a proposito della diagnosi di schizofrenia identificata come uno delle principali fattori patogenetici. Lo stesso etichettamento diagnostico – come anche sostenuto dalla labeling theory – può comportare una stigmate squalificante con ulteriore difficoltà nel processo di adattamento e reintegrazione sociale dell’individuo nel contesto di appartenenza. Nel ricorso a tipizzazioni diagnostiche il terapeuta sarà anche influenzato dal particolare background culturale di provenienza o da metodologie applicative usate congiuntamente alla Gestalt. La formazione di Perls alla scuola di W. Reich ha indubbiamente contribuito a focalizzare in particolare la ricerca sulla struttura del carattere L’obiettivo principale, infatti, è di risalire dal sintomo emergente a quel modo-di-essere-nel-mondo che rappresenta quella costellazione di vissuti ed agiti di cui il sintomo è, appunto, segnale. In altre parole si tratta di passare dal fenomeno alla struttura caratteriale che lo sottende. Nella concezione di Perls (1947, 241) “Il nostro scopo è – attraverso la concentrazione – di ristabilire le funzioni-Io, dissolvere la rigidità del corpo e l’Io pietrificato, cioé il ‘carattere’”. Uno strumento innovativo introdotto in particolare da C. Naranjo per favorire la configurazione sintomatica in quadri caratteriali prevalenti si riferisce alla Psicologia degli Enneatipi. Si rimanda al proposito alla pubbicazione trasdotta anche in italiano come Carattere e Nevrosi (Astrolabio Ed., 1997).
Le tecniche
La Terapia della Gestalt è spesso conosciuta per alcune tecniche rienute particolarmente efficaci e che vegono spesso utilizzate anche nel contesto applicativo di altri indirizzi. Seppure la gestaltizzazione dello stile operativo in psicoterapia è molto diffuso, spesso all’insaputa o addirittura in apparente contrasto con le fonti da parte di chi lo adotta, appare senz’altro riduttivo cogliere dell’approccio gestaltico alcuni aspetti applicativi e non lo spessore del modello teoretico che li sottendono. In un lavoro gestaltico di buona qualità, e non sempre è dato rilevarlo, gli elementi di riferimento epistemlogico come le diverse modalità applicative risultano collegati da una intrinseca coerenza di rimandi reciproci (risultando i singoli elementi gestalticamente significati da un disegno che li avvalora) da non autorizzare il riferimeno ad una specifica tecnica utilizzata. L’uso di tali strumenti, al di fuori di una logica complessiva che li giustifichi in modo appropriato, risulta spesso inappropriato. Per questo motivo anche i testi classici di Gestalt eludono spesso la descrizione di modalità operative che possano essere adottate al di fuori di un apprendimento esperienziale da parte di chi intendesse avvalersene. Una tecnica rimane pur sempre un espediente – precisa Perls -. Nella Terapia della Gestalt lavoriamo per altre cose. Siamo qui per dare impulso al processo di crescita e sviluppo delle potenzialità umane. Non parliamo di felicità istantanea di cura istantanea. Il processo di crescita è un processo che chiede tempo» (Perls. 1969, 10).
1) l’uso del tempo presente. Sul significato filosofico del presente ci siamo già soffermati. Tali premesse si traducono nell’invito spesso rivolto all’analizzando di esporre il suo racconto – sogno o anche rievocazione – non al passato ma al presente. Con questa operazione non si intende operare una simulazione sul come se l’avvenimento si svolgesse adesso (in Gestalt si preferisce lavorare sui vissuti reali più che simulati come pure non si enfatizza il come se dell’esperienza relazionale in terapia) ma al contrario si sottolinea il fatto che l’episodio è significativo adesso se è nel presente che viene rievocato. Tale attitudine si collega anche alla
2) comunicazione diretta. Specie se si tratta di contenuti a tonalità emozionale più intensa, è frequente constatare la tendenza a rifugiarsi dietro un messaggio allusivo ed indiretto per evitare la comunicazione più esplicita e diretta. Tale atteggiamento sostanzialmente infantile evidenzia una inabilità nella
3) assunzione di respons-abilità intesa come abilità a rispondere che notoriamente compete la condizione adulta. Tale modalità operativa non va confusa, come spesso si fa, con un atteggiamento pedagogico ispirato da una posizione persecutoria del tipo “sii responsabile” e che notoriamente comporta una comunicazione a doppio legame. Più che il comportamento, e la sua modifica, la assunzione di responsabilità riguarda la riappropriazione consapevole del vissuto, il re-owning di cui già si è detto. Di qui
4) l’uso della prima persona rinunciando a quel “si dice” (di heideggeriana memoria) a quel “noi” dietro il quale nascondersi per il timore di differenziarci come individui e quindi separati dalla rassicurante e mimetica massificazione di gruppo. L’impostazione della Gestalt su questo punto è molto radicale, sino a
5) deenfatizzare la nozione di inconscio. Se in sogno io uccido mio padre o mi unisco a mia madre, questo non mi autorizza ad attribuire ad un fantasmatico inconscio la responsabilità di questo gesto. Sono io, o comunque un a parte di me, che comunque si esprime in questo agito. Solo assumendo la responsabilità di questo comportamento (di qui la grandezza di Edipo come eroe tragico della consapevolezza e del “conosci te stesso”) io posso in qualche modo fare entrare questo tema nella sfera dell’Io consapevole e sottrarmi quindi alla necessità di un volere altro (attribuibile, a seconda del paradigma culturale dominante, al volere deegli dei, di un genitore o di un anonimo agente interno di cui io non sono consapevole). Di qui l’uso del
6) monodramma. Tale tecnica, detta comunemente anche sedia vuota comporta la assunzione della duplice (o multiforme) identità di cui il mio Sé si compone. Tali sottopersonalità possono ovviamente essere in conflitto reciproco sino ad ignorarsi completamente, come si rivela nello sdoppiamento schizofrenico della personalità. La negoziazione che è possibile avviare tra queste due parti di me in conflitto – alternando successivamente l’identificazione nelle due parti ubicate nelle due sedie – consente abitualmente un notevole chiarimento della polarità in gioco ed una accelerazione dei processi integrativi. In tale modalità è più agevole prescindere inizialmente da un approccio freddamente cognitivo e operare attraverso una più intensa
7) catarsi emozionale. Il lavoro a presa diretta sui processi primari (immagini, emozioni, vissuti corporei, gestualità) rappresenta sicuramente una caratteristica forte dello stile gestaltico. La fase cognitivo-integrativa non viene sottovalutata ma viene generalmente dilazionata a conclusione di un percorso esperienziale che si propone in una prima fase di contattare in modo diretto e meno mediato i contenuti emozionali. L’uso del lavoro sui processi primari va assolutamente sconsigliato a chi non un è passato attraverso una personale esperienza di detta modalità applicativa;
8) l’ologramma. Nella concezione della Gestalt, ogni vissuto ha, seppure con graduazione differenziata degli ingredienti, sia una componente cognitiva, che immaginativa, emozionale, sensopercettiva e vegetativo-corporea. Quale che sia la porta di ingresso nel vissuto, è utile configurarlo secondo la poliedrica prospettiva attraverso il quale può essere colto. Questo significa far emergere la tridimensionalità della gestalt emergente e facilitare quindi il processo della
9) gestaltung. Il processo morfogenetico rappresenta sicuramente l’anima stessa dell’approccio in oggetto. Qual’è la cosa in gioco in questo momento? Cosa vuole esprimersi, configurarsi, emergere con definizione più chiara da uno sfondo più indifferenziato, da una matrice magmatica in cui gli elementi del passato si amalgamano in attesa di partorire il nuovo? Più che una tecnica si tratta qui di un’arte che esperienza e conoscenza consentono di sviluppare vieppiù nel lavoro clinico;
10) la frase ripetuta. La reiterazione di una sequenza di racconto, vuoi riferita al soggetto (e detta magari per inciso o con enfasi emotiva) come pure ad un personaggio significativo nella sequenza stessa consente una amplificazione del vissuto emotivo latente e quindi della possibilità di connotarne il significato e la comprensibilità. Alla ripetizione della frase, che spesso evoca una resistenza proporzionata al tentativo di rimozione del contenuto latente, si chiede di esprimere la sensazione che vi si associa sino a raggiungere una sufficiente congruenza tra contenuto e modalità espressiva. Alla abituale attitudine ad eludere, ad evitare ciò che ci può coinvolgere emotivamente, la Gestalt suggerisce il percorso opposto della
11) amplificazione. Detta tecnica può applicarsi a contenuti di coscienza di varia natura: un gesto, un’espressione verbale, un’immagine, una sensazione corporea. Anche qui, anzichè rassicurare minimizzando, si preferisce attraversare appieno il vissuto (spesso conflittuale). Tale modalità richiede ovviamente lo sviluppo di una adeguata attitudine virgiliana che consenta di accompagnare il nostro esplorare nelle pieghe più temute dei propri “inferi”;
12) il fenomeno e il linguaggio corporeo. Coerentemente alla sua impostazione fenomenologica la Gestalt riconosce un grande valore a ciò che si manifesta prima di presumere di accedere a ciò che si nasconde. Un uso incauto dell’inferenza, attraverso la pratica dell’interpretazione, comporta infatti il rischio di spostarsi sul possibile contenuto recondito svuotando di significato il contenuto che appare e che ha elementi di obiettivabilità, nel senso anche di osservabilità, che non vanno sottovalutati. L’importanza di far emergere ad un livello di maggiore osservabilità i contenuti latenti si associa all’uso dello
13) esperimento. L’evoluzione provede per tentativi ed errori. Nel laboratorio rappresentato da un setting gruppale, più ancora che individuale, il soggetto viene messo nelle condizioni di esplorare modalità comunicative diverse da quelle spesso insoddisfacenti e ripetitive da cui si sente imprigionato. Il conduttore dovrà quindi predisporre un percorso esperienziale capace di favorire questa esplorazione che mette in gioco sia il comportamento agito che i vissuti a questo collegati. Sarà compito del ricercatore confrontarsi con l’esperienza raccolta potendo integrare, o anche rifiutare, un diverso modo-di-essere-nel -mondo. Nella capacità di inventare un percorso esperienziale adeguato (innovativo ma anche praticabile) si gioca evidentemente l’abilità del terapeuta che sarà chiamato ad immettere anche lementi creativi ed inventivi e non solo applicativi di moduli prefissati. Sarà chiamato, in altri termini, anche a
14) correre dei rischi. Il sostegno alla assunzione di rischio è una caratteristica non marginale nell’approcco della Gestalt che si propone come non paricolarmente protettivo e tutorio. Provocatoriamente Perls definì la Gestalt una “terapia per sani” sottolinenado l’importanza dell’assumersi delle resposnabilità nel percorso di crescita personale per consentire il
15) passaggio dal sostegno ambientale all’autosostegno. Il primo corrisponde ovvamente ad una fase più arcaica della nosra evoluzione personale nella quale abbiamo bisogno di un maggiore aiuto, di un “Io sostitutivo”, per utiizzare un concetto di Winnicott, generalmente dato dalla funzione materna. Successivamente abbiamo bisogno di stimoli ed impulsi più vigorosi per assumerci il rischio della differenziazione e della esplorazione del mondo che si configurano come percorso evolutivo maggiormente improntato alla funzione paterna.
La relazione terapeutica nella Terapia della Gestalt
“Dal momento che i terapeuti della Gestalt si propongono di essere presenti come persone reali, la crescita può avvenire attraverso il lavoro sulla consapevolezza nel contesto di un contatto reale tra persone” (G. Yontef, 1991, 274).
L’aspetto proiettivo transferale sulla relazione terapeutica viene, nell’ottica gestaltica, deenfatizzato rispetto ad un’attitudine a saper vedere la persona reale nel terapeuta (come in ogni altra persona) al di là dei veli di Maja delle nostre proiezioni. La indiscutibile presenza dell’elemento transferale, seppur tenuto presente, viene quindi affrontato nel senso di un dichiarato proposito di superamento e non legittimanto attraverso una strutturale connotazione della reazione terapeutica. Questa, ancora una volta, rappresenterebbe una barriera alla autenticità-rischio dell’incontro reale con l’altro da sè che, se da una parte può proteggere dal rischio stesso di tale incontro, dall’altra legittima una intrinseca infantilizzazione del rapporto.
E’ chiaro che una simile definizione di incontro non è possibile laddove manca la possibilità di esercitare una capacità di scelta. Una situazione di crisi, di grave debolezza emotiva, di psicosi (conclamata o latente) è incompatibile con quel poter essere (sein konnen) di cui dicevamo e che riconduce la relazione ad una polarità fortemente asimmetrica in cui c’è una persona scarsamente consapevole e capace di prendersi cura di sè ed un’altra che è chiamata a svolgere una esplicita funzione di aiuto.
Si tratta tuttavia di valutare, accanto ai possibili errori, il potenziale evolutivo di un’attitudine meno protettiva e infantilmente rassicurante che contraddistingue spesso la relazione terapeutica.
Giova aggiungere come il contesto del gruppo giova a far superare una irrealistica ossessivizzazione della relazione terapeutica stessa. Tale operazione esige un’articolazione assai delicata dei rapporti nella direzione di un sostegno ad una progressiva accettazione dell’altro-da-sè superando una posizione narcisistica frequente nel paziente a volere il terapeuta come fantasmaticamente tutto per sè.
Il lavoro sul sogno
Il dreamwork, o lavoro sul sogno, rappresenta sicuramente uno degli ambiti applicativi più originali dell’approccio gestaltico.
Un secolo fa, tra il 1898 e il 1900, Freud scriveva L’interpretazione dei sogni, l’opera che che più di ogni altra il fondatore della psicoanalisi considerava come innovatrice nell’aprire la “via regia” nel processo dell’auto conoscimento.
Mentre il contributo di Freud ha teso valorizzare l’importanza del rimosso e quindi della funzione onirica in quanto soddisfacimento allucinatorio di un desiderio inappagato che trova principalmente nel passato le origini della sua inibizione, C.G. Jung ha allargato tale prospettiva esplorativa ravvedendo nel sogno anche un elemento di anticipazione, un tendere verso una meta di realizzazione a cui il Sé, seppure spesso ad insaputa dello stesso sognatore, tende per propria natura e che lo rapporta strutturalmente alla dimensione del futuro.
E’ tuttavia merito di Perls aggiungere alle due dimensioni del pasato e del futuro quella focalizzazione sul presente che consente la ricomposizione del tripode delfico, quella coniugazione cioé tra storia passata e dimensione prospettico-entelechiale che trova nel da-sein, nel concreto di una precisa declinazione spazio-temporale del presente quelle connotazioni di significato che più compiutamente la esprimono.
I fondamentali contributi dell’ottica gestaltica, seppure innegabili sotto il profilo dell’efficacia del lavoro clinico nel favorire il processo integrativo e della consapevole assunzione delle parti scisse, non ha trovato a tuttora una sufficiente elaborazione concettuale.
Nel tentativo di sintesi che di seguito si riporta verranno poste in evidenza alcune componenti che caratterizzano il lavoro gestaltico sul sogno con una particolare attenzione alla comprensione del processo morfogenetico dell’immagine e della sequenza onirica come espressione del processo creativo che integra elementi della storia passata, fattori attuali e movimento prospettico nell’evoluzione del Sé.
– L’identificarci nelle parti. Sembra quindi che l’attività onirica rappresenti una forma di ruminazione psichica attraverso la quale i vissuti raccolti quotidianamente, le tracce mnemoniche e le rappresentazioni anticipative sul futuro vengono processate dalla psiche al fine di mettere insieme i pezzi in insiemi dotati di senso. Il problema è che spesso sussistono impedimenti a tale processo assimilativo. Un pregiudizio contro l’aggressività, ad esempio, può impedirmi di riconoscere come mia una pulsione aggressiva con il risultato di proiettarla sull’altro da me. Per dare la parola a Perls: “Tutti i differenti elementi del sogno sono dei frammenti della personalità. Essendo il fine di ciascuno di noi divenire una personalità sana, vale a dire unificata, si tratta quindi di mettere insieme i diversi elementi del sogno. Dobbiamo riappropriarci degli elementi proiettati, frammenti della nostra personalità e recuperare quindi il potenziale contenuto nel sogno”(Perls, 1947, 251).
– l’immaginazione attiva. Di derivazione junghiana è del pari l’uso di questa importante metodologia che aiuta il sognatore ad assumersi la soggettività consapevole del percorso onirico. Spesso un sogno viene interrotto da un improviso risveglio. Immancabilmente ci troviamo di fronte ad una resistenza, ad un empasse che non ha consentito il prosieguo della rappresentazione onirica. Cosa lo ha impedito? Un efficace metodo è appunto quello di reimmergersi nella situazione interrotta e scoprire che cosa in noi non vuole proseguire e preferisce al contario interrompere la sequenza. Tale autointerruzione, una volta approfondita, ci darà utili informazioni sui nostri meccanismi evitativi e sulle modalità con le quali autointerrompiamo i nostri processi evolutivi;
– l’unicità della persona e dizionario dei simboli. I simboli, come le parole, possono avere molteplici – e spesso anche opposti – significati. Prima di ogni decodifica concettuale sarà quindi fondamentale assorbire l’emozione che accompagna ogni sequenza del sogno. Solo questa, infatti, consentirà di dare al codice semantico il suo vero significato contestualizzandolo nella situazione particolare in cui si è manifestato. La tendenza a ricorrere prematuramente alla decodifica simbolica attraverso l’interpretazione penalizza l’unicità dei vissuti del sognatore e rischia di perdersi nell’omologazione di cognizioni preconfezionate ed alle quali una banale competenza libresca può indebitamente far presumere di accedere.
Sentiamo al proposito Perls (1947, 241): “Dopo aver preso coscienza dell’esistenza delle proiezioni, dopo averle riconosciute come appartenenti alla vostra personalità, dovete assimilarle. Tale assimilazione è la miglior cura per tutte le tendenze paranoiche. Non è facile ammettere quando avete sogni paurosi che trovate un diabolico piacere nello spaventare le altre persone e che voi siete un serpente velenoso o un cannibale”;
– la polisemia e la gestalt emergente. Il sogno, come il mito ed anche singoli comportamenti umani, sono generalmente gravidi di una molteplicità di significati che, tutt’altro che escludersi a vicenda, si intrecciano coesistendo e spesso agendo come reciproci rimandi potenzianti. Tale sovradeterminazione, genialmente anticipata da Freud, consente di sviluppare secondo molteplici prospettive il materiale onirico presentato. Limiti di tempo ed un principio psico-economico impongono, o quanto meno suggeriscono, l’opportuniotà di cogliere quelle reti di significato che appaiano dotate di maggiore energia e pregnanza per il sognatore nella fase esistenziale che sta attraversando. La convergenza di dati immaginali, emozionali e cognitivi consentirà al terapeuta esperto di cogliere la tridimensionalità della figura che chiede di emergere con maggior forza da uno sfodo di rimandi possibili concentrando l’attenzione su quegli elementi che veicolano messaggi dotati di maggiore forza espressiva;
In conclusione possiamo dire che il lavoro sul sogno rappresenta una formidabile opportunità di conoscenza (la famosa via regia di freudiana memoria) al conoscimento del Sé e delle sue modalità di contatto (tra le parti del Sé e le rappresentazioni sul mondo esterno) e di cambiamento, specie se utilizzato a pieno attraverso un buon lavoro ermeneutico che consenta di riappropriarci della nostre parti scisse, di rielaborare vissuti rimossi nonchè di proiettarci più consapevolmente verso quelle direzioni esistenziali sulle quali i messaggi onirici ci danno puntuali indicazioni.
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